Tre poesie da Limpida a guardare di Michela Silla

Se perdo te

perdo

   

le braccia nude

e me straniera

sugli abiti stirati;

   

perdo il gioco

di dèi inanimati,

   

il dolore che ride,

la mano sulla testa

a benedire torti.

   

Se perdo te

perdo

   

ago e filo

che mi tengono unita

   

e rabbia nei cassetti,

noia grigia per creare.

   

Se perdo te

che sei il seme,

la prova,

il tentativo malriuscito

di sovvertire

   

e corse a metà

di amori rifatti;

   

se perdo te,

   

mi spargerò sull’avvenire

senza convinzione.

* * *

Ho raggiunto il capolinea,

non ho più vestiti addosso:

vedo il fondo del bicchiere.

   

Trabocca sole

dal palmo della mano.

   

Scompare la paura

di essere abbastanza.

* * *

Chiami cose di vento,

capovolte

in disparte,

col vestito di sole.

   

Chiami tutte le volte

in cui voglio sparire,

   

cadere,

volare.

   

Chiami stanze di libri

dove cerco risposte,

   

chiami argento

e una notte,

una notte d’estate:

   

non so ancora perché,

ma mi vedo ballare

   

con te

   

io mi vedo brillare.


La poesia di Michela Silla, tratta dalla raccolta Limpida a guardare (Transeuropa Edizioni, 2022), si innesta su un dialogo serrato e denso con un tu onnipresente, centro attorno al quale l’io sembra gravitare e scivolare tra le sue traiettorie ellittiche sia suo malgrado sia con affezione ancora resistente, seppur scalfita dal tempo delle cose svolte e, in parte, perdute. In tal senso, il corpo di questo scambio a due – guidato tuttavia da una sola e insistente voce – è dato proprio dalle numerose anafore che inframezzano i versi, ora la verbo della prima persona che cerca e chiama ora a quello della seconda che viene descritta nella sua mancanza: ed il giro voluminoso attorno al ricordo del tu è scandito dalle assonanze che regolano il ritmo delle immagini di volta in volta evocate.

Così il dialogo diventa man mano anche dialogo interiore, tentativo di comprendersi meglio attraverso sprazzi di luce che, tramite le immagini rammemorate, illuminano l’io il quale si (ri)scopre nei propri limiti e contorni, nell’attesa che combacino con quelli di un altro e trovare il  proprio luogo.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 28 aprile 2022

Tre poesie da Scritti d’inverno di Marina Minet

Potessi appartenerti

Potessi appartenerti, terra

meriterei un ricordo, la tregua in fondo agli occhi

e un treno per tornare senza voltarmi indietro.

Terra che non piangi, sul banco del macello

non diffidare mai di queste braccia

per le proteste mute che avvolgono d’inverno.

   

Ho visto le stagioni offrire la pietà ai rami in decadenza

e il grigio delle nubi cadere sopra i palmi dei bambini

come una preghiera

e ho visto facce scansare la ragione

attese fermate nella gola come spine

e il fango della lingua coprire anche le idee.

   

Potessi appartenerti

come la polvere che vigila le strade

riposerei in disparte – ai margini del vento –

sicura d’invecchiare.

   

Tu sei la terra che aspetta le radici.

La gola che divora l’agonia

e il volto dei calanchi icarna ogni perdono

quando le nostre labbra si schiudono nel Sinni

disteso

come il seno di una vecchia.

* * *

Vicoli

In questi vicoli

si aggirano le rughe della gente

come non le avevo mai vedute

ostili

naturali

come il gelo che s’innesta sulla terra.

   

In questi vicoli sfuggenti ad ogni sguardo

si aggira anche il perdono

e la preghiera si spezza in mezzo ai denti

sfinita

fra un grano di rosario

e una bestemmia.

   

In questi vicoli insabbiati

come umide trincee

chiudo a chiave le porte

diffidando del tempo

che abbandona

le grondaie

al loro pianto.

   

Da dietro le finestre

osservandoli riflessa

li sento miei un istante

– talvolta

se il sole si ricorda

che anche loro si cibano di luce

al suono del tuo passo che ritorna.

* * *

Guardando l’orizzonte

Io non so com’eri ieri

terra che fai male, come un lutto.

Se uguale ad ora ti specchiavi nelle pozze

scavando le voci delle vecchie

per renderle infantili come un tempo

quando al buio anche i santi pregavano a rovescio

e i piedi sulla strada sfidavano le scarpe.

   

Terra d’avara confusione, chi pregherà con te

vuotando i battisteri fino al grembo

non c’è nessuno a ungere le falci tra i covoni

per frammentare il grano a spigoli di sogni

il tanto di invecchiare la gioia e le stagioni.

   

Maria che è nata qui

ti serve di nascosto ogni mattina

temendo la salita con il gelo

e chiede due monete per le uova e i soliti boccacci

voltandomi le spalle un po’ dubbiosa

per non mostrare il volto

di chi non ha più attese.

   

Egidio pensa a ciò che non sa dire

e che lo porta via – come la pioggia

poi sorride senza fiato dopo l’orto

ferendomi al ricordo di mio padre

mentre i suoi calli si spaccano stagnanti

piantandomi nel cuore un osso nuovo.

Terra che fai bene, come l’amore.

Io non so cos’è questo formicolio diverso

che mi trapassa lento – succhiandomi la pelle come un

figlio

questo adorare invano che adesso mi appartiene

   

guardando l’orizzonte così vicino agli occhi.

* * *

La poesia di Marina Minet, tratta dalla sua raccolta Scritti d’inverno (PrinMe Editore, 2017), è vigorosamente narrativa: attraverso il suo susseguirsi dei versi prende con decisione la parola un io intento nel suo dialogo con il mondo e le sue cose nel tentativo di tracciarne una descrizione che, grazie al canto, ridoni senso ai suoi occhi. In tal modo, mediante strofe corpose eppure fluide nei loro versi liberi – talvolta quasi sgretolati nei loro confini visivi sulla pagina – si delinea nei componimenti un modulato gioco a incastro delle immagini: immagini significative e dipinte verbalmente attraverso un non meno pesato uso delle singole parole, giocando infatti con capace manualità nell’accostare termini semplici, schietti, per creare urti e corrispondenze di significati ulteriori.

Così, è questo un racconto poetico denso che trova un sua musica sciolta nelle assonanze e sempre nella scelta attenta delle parole: c’è l’io che guarda la sua terra, il suo mondo, modulando coi versi un suo desiderio d’appartenenza ad esso, un volersi riconoscere nelle stesse immagini da lui cantate. La parola è dunque comprensione e ritrovo, attraverso la quale sentirsi a casa.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 15 Febbraio 2023

Tre poesie da Senza titolo. Sovversi di Mirko Boncaldo

con le punta di dita, rorida

come brina sulle sgretolate screpolature

vieni

e sobilli atavici sedimenti

di fiori sconosciuti e incandescenti

incredule ombre

che l’acqua non regna, lontana

che bagna:

   

suffragetta, partigiana, femme.

* * *

elevo: è vocazione

che dalla tua voce immane

scuote e in me permane

provocante consunzione

ascoltarti di nuovo

parlare nel silenzio pesto,

leggiadra invocazione,

ladra delle parole.

   

con te mi sperpero.

* * *

Disingannami, disilludimi, disincantami

e balla al ritmo delle primaverili premure

balla alle piogge estive, balla

all’inverno fregiarsi delle tue foglie

elegante sempreverde, balla.

* * *

Nelle poesie di Mirko Boncaldo, tratte dalla sua raccolta Senza Titolo. Sovversi (Transeuropa edizioni, 2022), il racconto poetico si costruisce su un continuo scambio a una sola voce tra l’io narrante e un tu sempre interpellato, cercato con foga ed evocato attraverso le parole. È solo l’io, infatti, che tra i due poli relazionali parla (e canta) e attraverso il suo affastellare termini e immagini da il ritmo dello scambio a due da lui stesso, appunto, costruito e sviluppato all’interno della pagina che lo accoglie. È un ritmo, quello di questa ricerca spasmodica dell’altro, del tu che sosta accanto eppure quasi sfugge ancora tra le dita, definito da un uso corposo di allitterazioni e assonanze: il canto che ne deriva è sì omogeneo ma anche irruento, fatto di pause spezzate del respiro alle quali seguono altre rincorse impastate nelle parole e nelle immagini dense che lo abitano.

Proprio attraverso questa alternanza tra forti concentrazioni di punteggiatura e pause sintattiche da un lato e da spazi distesi di parole che si rincorrono dall’altro l’io rende col canto la forza gravitazionale estrema, ruvida, del tu al quale si rivolge e che lo attira costantemente a sé. La parola, così, diventa celebrazione di un movimento magnetico che prelude ad un’unione a due, della quale il canto che la contiene si mostra come espressione musicale.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 3 Febbraio 2022

Tre poesie da Formulario per la presenza di Francesca Innocenzi

Città di acciottolati liquefatti nella pioggia

città di vento e sole

                               di voci e di campane

e uomini vendevano gli stracci per vestire

giocosamente il nulla

   

città di mimi e attori

                                 di manicomi e di ospedali

dove noi ci salutammo frodati di risposte

sul gradino di un portone infranto

* * *

Quando ci si chiede di te si pensa

che il dopo è un codice a barre sul nulla

agonie da camera di tarli legnosi

                                                     che si sfrangiano

e si smateriano come cenere in un’urna

momentaneamente riposta

da offrire in pasto a un cetaceo di pietra

nella marina verde oltre il cancello

(a mia madre)

* * *

Il tempo anelato istante eterno

Il tempo anelato istante eterno

è caduto come miele sul selciato

   

il tempo, profumo di pruneto

rifugio e scampo al tuo corpo voluto

   

la ferrea leggerezza che in te ho accarezzato

stasera serbo

                  scherzo di brezza su salice muto

* * *

Nelle poesie di Francesca Innocenzi, tratte dalla raccolta Formulario per la presenza (Edizioni Progetto Cultura, 2022), la narrazione poetica si innesta su immagini giocate nello spazio tra similitudine e metafora per poi procedere da esse e dipanarsi, parola dopo parola, nell’assenza quasi assoluta della punteggiatura. Qui il ritmo è comunque offerto e orchestrato dalla costruzione spesso sfranta dei versi, i quali visivamente sembrano slittare quasi gli uni sugli altri, mentre la melodia prosegue tra una presa di fiato e una pausa a mimare, così, la sequenza di immagini e ricordi che si articolano attraverso il tempo soggettivo dell’io che le narra.

È appunto il rapporto col tempo che man mano si delinea nel canto: un legame che sembra caratterizzato dalla sua stessa perdita e, dunque, abitato solo nel ricordo dell’io che rammemora ciò a cui manca una risposta e una corporeità da toccare nel suo presente narrante. Un corporeità sostituita dalla vividezza delle immagini a loro volta ricordate quasi ad ingannarne, tramite la parola, l’inconsistenza tra le proprie mani. È in questo spazio, tra assonanze e verbi allitteranti tra di loro, che fluisce così il canto che ricorda le cose, attendendone il riscatto.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 24 Gennaio 2023

Tre poesie da Granelli di speranza di Benedetto Ghielmi

Granelli di gioia

Malinconica mancanza

   

il cuore tiene desto

il desiderio

di rivivere l’attimo.

   

Sacra e insensata gioia.

* * *

Paesaggi aperti

Ecco!

   

Con un battito

di ciglia,

mi esplode

dinanzi

la meraviglia.

* * *

Venerdì santo

Roboanti

frastuoni

di questa umanità

sanguinolenta.

   

Silenzio.

   

Desidero aggrapparmi

ai fili della speranza.

   

Dio tace

ma per amore.

   

Il silenzio di Dio

è il nostro

silenzio.

   

Ingrassare

di parole vacue

per dissetarsi

dell’acqua

della verità.

   

Quante parole

può contenere

il silenzio?

   

Speranza,

amore,

viatico di vita.

   

Viole disadorne

del colore

della vita.

Dio tace

per donare

luce alle povertà

dell’essere umano.

   

Ridestandoci,

rimettiamoci

a macinare chilometri

sul sentiero

della vita.

   

I salici coccolano

le nostre

cicatrici.

   

Silenzio.

   

Risvegliamoci

passo dopo passo.

   

Silenzio.

   

Ridoniamo vigore

alle nostre anime

intirizzite

dal digiuno d’amore.

   

Silenzio.

   

Dio non dorme

di fianco

alle nostre

esistenze.

* * *

Nei suoi testi, tratti dalla raccolta Granelli di Speranza (Ensemble, 2022), Benedetto Ghielmi mostra di fare uso di una sintassi poetica che quasi “deflagra” e si espande al centro della pagina, lasciando tra i vari gruppi di versi vallate vuote col compito di colmare la distanza che li separa. Eppure, a questa parcellizzazione della strofa, del canto, corrisponde un crescendo costante del ritmo: ad ogni pausa, ogni frattura del verso la melodia di fondo riprende fiato per darsi nella battuta che segue al vuoto che la attende ogni volta con ansia.

Così, attraverso l’uso preponderante di ripetizioni e allitterazioni il ritmo diventa narrazione riconoscibile attraverso lo scorrere cadenzato delle parole: ad esse è affidato infatti il compito – attraverso immagini vivide e metafore che pongono di fronte agli occhi del lettore forme e visioni – di ricordare ora all’io ora ai suoi interlocutori ciò che giace all’interno del sé e attende solo di essere disvelato e rimembrato, scandendo ad alta voce le parole che lo definiscono per evocarselo, di nuovo, davanti. Il canto allora diventa invito a riaccorgersi di se stessi, ad abbracciare le cose e proseguire sul proprio sentiero.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 21 Dicembre 2022

Tre poesie da Il tuo sacerdote di Gian Piero Stefanoni

Esodo

È storia ora di vocine,                                                                                                          

di piccoli alberi abbattuti dai nidi,                                                                                         

di sottocolpi scanditi tra fratelli.

   

Avevamo dimenticato il fiume,                                                                                            

pensavamo fosse salda la barca                                                                                                 

nascosta nella pelle ogni distanza.

   

Ma di questo si nutre la plancia                                                                                           

nella scorta delle offese residue.

   

Chi cerca il timone vede la costa,                                                                                          

non sente i colpi che dietro                                                                                                   

si affollano dai pesci.

* * *

Il mio sacerdote

Esce tra i banchi cercando qualcuno.

Ha sentore di pietra composta nel legno.

   

Dove è buio è solo l’uomo,                                                                                                          

teme d’esser venduto; ha davanti                                                                                                                    

una domanda di pane, una città che muta                                                                                                  

entro una strana apostasia di pensieri.                                                                                              

   

Qui resta il mio sacerdote-                                                                                                                 

e ricomincia- al collasso della parola.

    

Perché ogni mano è stata sulla croce                                                                                              

nella divina follia del creato.                                                                                             

* * *

La terra

La terra è questa e non muta                                                                                                  

e povertà nega l’amore                                                                                                                     

ma Cristo crede e resta nella carne,                                                                                                               

Cristo crede ed eccede; spezza                                                                                                       

di nuovo il pane, versa ancora da bere.                                                                                                                        

   

Ha desiderio di noi- e fede-                                                                                                                                        

la contrazione che presiede al travaglio,                                                                                                                                        

l’atto che nasce da quel volto.                                                                                                              

   

Non rompe né spiega la fedeltà                                                                                                      

l’ordire sulla soglia, la leva                                                                                                              

senza nome della morte.

* * *

Nei versi di Gian Piero Stefanoni, tratti dalla raccolta Il tuo sacerdote (2022, dal blog La poesia e lo spirito), il ritmo si contrae in gruppi ristretti di versi, di strofa in strofa, quasi a singhiozzo. In tal senso, la particolare scansione musicale del verso sembra mimare quel collasso della parola che l’io canta nel suo racconto poetico dove, sotterraneamente, voci minute narrano la storia che nel frattempo accade legando strofe e versi dall’uso ripetuto e cesellato di assonanze.

È un mondo, una terra, quella descritta immutabile e caotica all’interno della quale l’io-Everyman si muove al buio tra pietre e legni duri e freddi che rimandano ai colpi subiti sul sentiero multiforme intrapreso: dentro di esso l’uomo porta con sé una domanda inesaudita e dimenticata mentre naviga a vista sulle maree terrestri. Tuttavia, è qui che si innesta una fede all’interno della quale riposa un riscatto, una risposta che eccede sempre la richiesta e la domanda stessa dell’uomo in un conforto: essa non spiega le sue ragioni ma ristora, riaccendendo all’interno di sé un mutamento che gridi alla storia.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 6 Dicembre 2022

Tre poesie da Recupero dell’essenziale di Michela Zanarella

Fidarsi della luce che ritorna

Fidarsi della luce che ritorna

nello stesso tratto di cielo

darsi appuntamento tra le curve della luna

i sogni nel mezzo l’alba con la voce di un’attesa

trovarsi a rovistare silenzi tra residui di stelle appena la

notte si congeda

poi schiarire memorie e puntare il cuore dritto al sole

come se fosse la rotta di una meta sicura

chissà se l’amore percorre lo stesso sentiero di giorno

e ogni gesto è la copia fedele di ciò che pulsa al buio

sopra le nuvole

magari il posto dei nostri abbracci non cambia.

* * *

Gli echi della vita già stata

Arrivano a raffica sparsi

gli echi della vita già stata

stanno sotto protezione degli astri

le volte che ci siamo amati

con tutta la volontà delle ossa.

Mi fanno visita scalzi i ricordi

dall’alto di un silenzio che conosce il resto

di una notte tanto vicina quanto lontana.

Si è decisa a ritornare la stessa luna

che ci aveva abbagliato gli occhi

è venuta a dirci che per luglio

dovremo stare in ascolto della ginestra

dovremo riabituare il corpo

ad uscire dal tempo

l’estate è sulla punta della memoria

non si scosta dalle eternità pronunciate.

* * *

In qualche mondo

In qualche mondo

la distanza di terra, aria, pensiero

diverrà neve calpestata, luce respirata dallo stesso lato

alba che sa guarire le sbarre di un confine.

Avranno dimore così vicine le nostre esistenze

che sarà sufficiente tenere l’andatura del sole

tra le piante di tè.

Potrebbe accadere che l’orizzonte chieda

di avvicinare più germogli alla luna e che una notte remota

acconsenta.

La vicinanza è un’alba annunciata sopra un corpo di stelle

che sfocia tra rami d’argento.

* * *

Nelle sue poesie, tratte dalla raccolta Recupero dell’essenziale (Interno Libri  Edizioni, 2022), Michela Zanarella fa uso di una rarefazione della punteggiatura portata, a volte, quasi allo stremo dove però il ritmo, l’andamento sintattico di un verso dopo l’altro sono dati dalle numerose assonanze poste alla fine dei versi stessi. C’è, dunque, un fluire riconoscibile dato dai suoni delle parole che si legano le une alle altre formando, di conseguenza, un sentiero attraverso il quale il racconto poetico può distendersi.

È nella narrazione che, infatti, emerge con chiarezza il tema della memoria di sé e degli altri che ruotano attorno ad esso e, accanto (o meglio, sopra) a questo, l’elemento celeste tra le sue varie forme (dal vento alla neve), i suoi momenti (dall’alba alla notte) e i suoi attori principali (il sole, la luna, le stelle).  Così, ogni ricordo dal quale scaturiscono immagini narrate si lega metaforicamente – ancor prima che visivamente – al cielo e, soprattutto, alla sua luce che sembra allungarsi e toccare i ricordi terrestri. Non importa se questa luce sia notturna o diurna, quanto piuttosto come la sua tangibile presenza ribadisca una sorta di continuità con degli spazi superiori percepiti come eterni e ad i quali ispirarsi, per i quali nutrire una ricongiunzione che nel qui-e-ora dell’io poetico è annunciata ed allusa, nel frattempo, dalla parola. In questo senso, allora, il sentiero terrestre narrato dalla pagina alza costantemente lo sguardo sopra di sé, nell’attesa di un parallelismo che si risolvi in una fusione.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 22 Novembre 2022

Tre poesie da Affreschi strappati di Giuseppe Settanni

la ragnatela appesa al ramo del castagno

e i capelli genuflessi

   

il passaggio è aperto ma

sembra un’arpa in decomposizione

ammutolita dal troppo rumore

   

la bocca si è sciolta tempo fa

nei vigneti di mio nonno

bruciati dalla fatica

   

un invito

a cui ora non so più rispondere

* * *

dovevi soffocarla nel sogno

la tua metà imprecisa

   

evitare il contagio

ti sembra poco?

   

il platano davanti a te

ha una cavità:

potresti nasconderti

in quello spazio umido

* * *

più di quanto io riesca

a deglutire

con i denti insanguinati

   

il corridoio, una scia che va

e viene

tra odori fecali e scissioni

   

a una cicatrice di distanza

dall’ultima salvezza

   

il cloroformio affama, afferra

con artigli da simulatore

   

limitare i danni

   

appassirsi

* * *

Nella poesia di Giuseppe Settanni – con suoi i versi tratti dalla raccolta Affreschi strappati (Edizioni Ensemble, 2022) – emerge chiaramente, tanto sul piano sintattico quanto su quello estetico, una tensione alla disgregazione formale e lessicale, al disperdersi nello spazio bianco del racconto poetico che mima così la dispersione interna dell’io il quale, inevitabilmente, si ritrova ad usare parole che fanno da eco a questa realtà interiore frammentata. In maniera interessante, ogni “frammento” da cui il singolo testo è composto evoca, attraverso l’uso di parole concrete tra aggettivazioni forti e termini specifici, immagini ruvide e tuttavia fortemente evocative: una sorta di isole di eventi a sé stanti che la parola poetica raggiunge saltando da una riva all’altra, da una strofa a quella seguente per annotarne, tuttavia, il loro rimanere all’interno di un medesimo arcipelago narrativo che allude ad una sua voce e continuità propria.

Sfruttando la brevità dei versi, il ritmo che ne consegue risulta conciso e scandito con forza da ogni interruzione narrativa: il risultato è una serie di sentenze poetiche narranti che, seppur nella loro concisione, riescono a rimandare il lettore a spazi di senso ulteriori da approfondire. In questi paesaggi di parole disperse sembra, nonostante tutto, rimanere aperto un passaggio per una ricomposizione che, però, è ancora di là da venire: la voce e gli strumenti del canto sono, appunto, disgregati e non possono accoglierne l’invito a proseguire. Forse la durata riposa nel ritmo che ancora, lievemente, lega tra di loro le parole dell’io.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 9 Novembre 2022

Tre poesie di Doris Bellomusto

Molte cose

Molte cose

sono immanenti e fragili,

senza radici

fluttuano nel tempo

che non hanno,

finiscono prima di iniziare,

iniziano con impeto

e sono anelli perfetti,

cerchi chiusi,

circonferenze morbide

senza angoli né spigoli.

Queste cose accarezzatele piano

come fossero un cane

bastardo

testimone d’amore e solitudine.

* * *

L’ora delle cose impossibili

Se mi cercate,

sono nascosta

fra le lettere del mio nome

che nessuno pronuncia mai

per intero,

questo nome che mi spaventa a morte

quando si stende dalla prima all’ultima lettera, perché non sembra mio

e mi sembra così stanco da voler sparire.

Sono nel vento che asciuga capelli e lenzuola;

nella mia fantasia infeltrita,

sulla punta della lingua,

pronta a sciogliersi in

baci

e parola

per chiedere alle nuvole che ora è.

È l’ora delle cose impossibili.

* * *

Tityrem tu patulae

Tityre, tu patulae

recubans sub tegmine fagi

spezzo il verso

come fosse pane

e fra me e me mi pasco

di nuvole, prati e briciole di pane,

quelle che raccolgo

nel silenzio della sera.

Come pane duro fra i denti

mastico forte il tempo che fugge.

* * *

Le poesie di Doris Bellomusto si caratterizzano sin da subito per i versi spezzati e irregolari che le costituiscono, quasi a mimare la ricerca affannosa delle cose che canta l’io attraverso il racconto poetico che avanza a singulti e, tuttavia, resta legato da un ritmo che trova la sua coerenza interna tra ripetizioni lessicali e parole derivate inanellate con decisione l’una dietro l’altra. Così, ogni verso suona ben scandito dall’uso mirato e misurato delle pause sintattiche mentre si accorda, nel frattempo, alla musica, ai suoni lessicali di quelli che lo precedono e lo seguono.

Attraverso questa costruzione poetica spicca, come accennato, la ricerca da parte dell’io – che utilizza la stessa, implicitamente, per raccontarsi – di una vicinanza assoluta, tattile e verace con le cose del mondo esterno per trovare una comunione con esse. Da qui dunque il “gioco” della poesia nel senso stesso del lusus (come quello con la citazione dei versi virgiliani) attraverso le cui parole, i cui espedienti retorici (su tutti, la similitudine spesso a chiudere visivamente con forza il singolo componimento) poter dare consistenza, corporeità a quelle cose percepite forse come sfuggenti e incorporee tra le proprie dita. Così, la parola poetica rassicura sulla loro esistenza e, di riverso, su quella di chi utilizza la poesia stessa per confermarsi all’interno del mondo.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 14 Ottobre 2022

Tre poesie da La vita là fuori di Mariapia Crisafulli

L’alter

Ti lascio i miei volti

rubati in stazione

Tutto l’umano che conosco

e possiedo

sta lì

   

Se impari ad amarmi

è perché ami loro

Se imparo ad amarti

è perché ho amato in loro

la trascuratezza

che il mondo riserva

nel rincorrere

i treni

in quelle mattine

uguali alle sere

[buie e fiacche

   

Hai mai visto qualcuno dormire

su un treno? – Sì che l’hai visto –

Ma il chiacchiericcio dei suoi pensieri,

il peso dei sogni interrotti

(dalle sveglie, nelle fermate…)?

   

Questo ho scoperto nei volti

dispersi e ammassati

tra le banchine e i sottopassi

in cui usuro le cicche

   

E questo ti lascio

mentre ti stringo

se ti sento annegare

mentre mi stringi

e mi scopri sfiorire

nella corsa dei giorni

* * *

La misura delle cose

La storia si conta per secoli

La vita per decenni

   

E i giorni per cose fatte o da fare

E le notti per occasioni consumate

o perdute

   

Le poesie si contano per fogli sparsi

come le case per finestre accese

in attesa di un ritorno

o intimando un addio.

* * *

Constatazioni

Potrei cantare le visioni dei vivi

i presagi che i morti sussurrano loro

aprendogli il varco dall’altra parte

   

Ma la mia mano è ferma

e il mio sguardo veglia sulle cose

che tocco e respiro

   

I morti mi vivono dentro e mai accanto:

viviamo qui insieme

[nessuno muore ancora

   

Là fuori c’è solo la vita

* * *

Le poesie di Mariapia Crisafulli, tratte dalla sua raccolta La vita là fuori (Macabor, 2021), si palesano attraverso versi spesso irregolari che mimano un andamento alterno e avvolgente mentre l’io, da dietro le parole, distende il suo canto man mano. In questo percorso metrico, tra una strofa e l’altra, molta attenzione è riservata in maniera chiara e precisa alla musicalità che scorre nei componimenti stessi: in particolare l’uso di anafore e altre ripetizioni dà luogo a un ritmo cadenzato, a volte quasi rituale mentre si aprono davanti agli occhi del lettore le immagini evocate dalle parole. A completare il canto, le varie rime e assonanze inserite spesso negli spazi tra i versi dove si muovono i punti significativi della narrazione poetica, aumentandone così il climax ed esaltandone il senso.

All’interno di questo racconto emerge con forza e delicatezza al tempo stesso la ricerca di una presenza amata attinta tuttavia a partire dalla sua assenza: essa non sembra coincidere con un solo punto focale della vita, con una sua singola entità, ma con la vita stessa mostrandosi come ostinata resistenza a uno scorrere del tempo, dei giorni, avvertito con ansia attraverso immagini sia quotidiane sia di una storia più generale e umana. Così, anche la morte che emerge da tempo rimane all’interno e non accanto mentre l’io aderisce ancora alla vita toccandone le cose: c’è ancora un sentiero da seguire, mediato dalla poesia, dove trovare un ritorno.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 29 Settembre 2022