Nelle poesie di Francesca Innocenzi, tratte dalla raccolta Formulario per la presenza (Edizioni Progetto Cultura, 2022), la narrazione poetica si innesta su immagini giocate nello spazio tra similitudine e metafora per poi procedere da esse e dipanarsi, parola dopo parola, nell’assenza quasi assoluta della punteggiatura. Qui il ritmo è comunque offerto e orchestrato dalla costruzione spesso sfranta dei versi, i quali visivamente sembrano slittare quasi gli uni sugli altri, mentre la melodia prosegue tra una presa di fiato e una pausa a mimare, così, la sequenza di immagini e ricordi che si articolano attraverso il tempo soggettivo dell’io che le narra.
È appunto il rapporto col tempo che man mano si delinea nel canto: un legame che sembra caratterizzato dalla sua stessa perdita e, dunque, abitato solo nel ricordo dell’io che rammemora ciò a cui manca una risposta e una corporeità da toccare nel suo presente narrante. Un corporeità sostituita dalla vividezza delle immagini a loro volta ricordate quasi ad ingannarne, tramite la parola, l’inconsistenza tra le proprie mani. È in questo spazio, tra assonanze e verbi allitteranti tra di loro, che fluisce così il canto che ricorda le cose, attendendone il riscatto.
Nei suoi testi, tratti dalla raccolta Granelli di Speranza (Ensemble, 2022), Benedetto Ghielmi mostra di fare uso di una sintassi poetica che quasi “deflagra” e si espande al centro della pagina, lasciando tra i vari gruppi di versi vallate vuote col compito di colmare la distanza che li separa. Eppure, a questa parcellizzazione della strofa, del canto, corrisponde un crescendo costante del ritmo: ad ogni pausa, ogni frattura del verso la melodia di fondo riprende fiato per darsi nella battuta che segue al vuoto che la attende ogni volta con ansia.
Così, attraverso l’uso preponderante di ripetizioni e allitterazioni il ritmo diventa narrazione riconoscibile attraverso lo scorrere cadenzato delle parole: ad esse è affidato infatti il compito – attraverso immagini vivide e metafore che pongono di fronte agli occhi del lettore forme e visioni – di ricordare ora all’io ora ai suoi interlocutori ciò che giace all’interno del sé e attende solo di essere disvelato e rimembrato, scandendo ad alta voce le parole che lo definiscono per evocarselo, di nuovo, davanti. Il canto allora diventa invito a riaccorgersi di se stessi, ad abbracciare le cose e proseguire sul proprio sentiero.
Non voler attribuire al gioco del calcio, il football o – per usare un termine foneticamente più coinvolgente – fútbol quell’elemento poetico che gli è innato è un lusso che solo il letterato chiuso nella sua alta torre d’alabastro può, forse, permettersi. Anche di fronte al cambiamento radicale che questo sport ha subito (in negativo) in maniera vorticosa nell’ultimo decennio tra esagerazioni di mercato e un divismo spasmodico e incontrollato di giocatori, tecnici e quant’altro, rimane ancora il suo elemento corporeo, la performance atletica e tecnica che, nel momento preciso nel quale viene eseguita sul campo di gioco, esprime quella fusione tra corpo e mente, linguaggio e azione fisica che coinvolge emotivamente e poeticamente lo spettatore in maniera ineludibile. Questo non è un tentativo apologetico nei confronti del calcio (tutt’altro) ma prendere di petto la questione della sua innata poeticità è centrale per quello che andremo a dire successivamente. Per il letterato o meno profano del tema ci viene in aiuto Pasolini, che esprime il concetto con una certa chiarezza:
Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato. Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto. I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”; e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.[1]
Il giocatore sul campo da calcio riesce, dunque, ad articolare ed esprimere un vero e proprio linguaggio che lo spettatore riceve, incamera dentro di sé e comprende – più o meno – a suo modo e secondo il modo del calciatore stesso. Quello che avviene, in sostanza, quando si legge una poesia. E Pasolini, infatti, si spinge oltre: «Ci sono nel calcio dei momenti esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. […] Anche il “dribbling” è di per sé poetico»[2]. C’è, quindi, poesia nel calcio: una poesia che ha a che fare, probabilmente, proprio con quel momento di unità tra corpo e mente in una danza che attraverso le sue mosse, i suoi dribbling e colpi inaspettati svela agli occhi di chi li “legge”, li assorbe, un lato del mondo finora non preso tutto sommato in considerazione. Insomma, interviene durante la visione del fútbol nella sua veste poetica, più autentica, quello shifting continuo tra ispirazione e razionalizzazione a posteriori[3], quel momento di aggressività dei sentimenti aggrappata alla rete che si insacca seguita dalla lucida rielaborazione dell’atto appena concluso. Un rapimento estatico che, seppur in forme sportive differenti, afferrava anche Leopardi di fronte alle gesta del suo vincitore nel pallone, tanto da fargli rimembrare l’ebbrezza di una vita alla giornata, oltre la noia e infangata dentro i rischi di ogni giorno:
La comunanza tra calcio e poesia – nella sua forma linguistica a noi più conosciuta – nell’aprire momenti vitalistici assoluti in grado di afferrare le nostre corde più profonde è quindi stata notata più volte da chi, il poeta sulla carta, lo fa o lo ha fatto di mestiere. È, dunque, nell’osservare il gesto atletico e tecnico del giocatore che noi percepiamo il suo dire poetico, il suo tentativo (più o meno consapevole) di esprimere la sua visione delle cose al momento del tocco della palla che può colpire i nostri sensi e rimandarci a uno stato di connessione con quell’attimo, impastando insieme corpo e psiche.
È proprio qui che interviene, a fare da intermediario fisico e non (come la carta tra poeta e lettore), il telecronista con la sua narrazione. Già, perché nell’epoca della fruizione audio televisiva del gioco del calcio avviene quella curiosa forma di aggiunta narrativa che è la telecronaca sportiva. Spesso, come il filologo dietro un’edizione di successo, dato per scontato e mai analizzato del tutto, il telecronista assume il ruolo fondamentale di narratore del gesto poetico che lo spettatore testimonia assieme a lui: in altre parole, aggiunge al linguaggio fisico – ripensiamo a Pasolini – del calciatore il linguaggio verbale vero e proprio per parafrasare (tentando di mantenere il più possibile il nocciolo poetico al suo interno) l’atto sportivo trasmesso dallo schermo agli occhi del telespettatore. L’onere del buon telecronista è, dunque, cosa non da poco: cercare di camminare parallelamente all’evento che osserva e rendere a parole ciò che esso rappresenta in sé stesso. A seconda del tipo di telecronista che si trova dietro ai microfoni potremmo avere, nel peggiore dei casi, una mera parafrasi molto prosastica e molto poco poetica di quello che vediamo o, nel migliore, una fusione quasi totale del linguaggio verbale del telecronista con quello fisico del giocatore sul campo da calcio tra emotività pura e abilità discorsiva sopraffine: è lì la poesia doppia, curiosamente e indescrivibilmente, sé stessa e lo spettatore non può che beneficiarne. Il telecronista è dunque il narratore aggiunto che, a seconda dei casi, può scegliere di essere mero traduttore del gesto tecnico o suo cantore posseduto come un rapsoda: in genere la maggior parte della telecronaca staziona in una sorta di via di mezzo ad oggi, tra tanti urlatori e pochi narratori o semplici accompagnatori delle azioni.
Qui si inserisce con prepotenza Lele Adani, rapsoda autoeletto in questi campionati mondiali di Qatar 2022 del fútbol dell’albiceleste e, neanche a dirlo, del suo uomo par excellence all’ultimo grande palcoscenico internazionale: Lionel Messi. La telecronaca di Adani, in questo senso, aspira ad essere un vero e proprio, instancabile e fedelissimo proemio ad ogni azione della Pulga e dei suoi compagni, conscio più di ogni altro della poesia innata nei piedi del fuoriclasse argentino. Tuttavia, è proprio questa incontenibile necessità di raccontare al mondo la grandezza della poesia del calcio argentino – ancora Pasolini affermava che «Il calcio in poesia è quello del calcio latinoamericano»[5] – che lo porta a un inevitabile quanto grottesco fallimento, una dissonanza stridente nel pieno del canto degli aedi latinoamericani sul campo. Adani si ingobbisce sul microfono, grida con la voce forzatamente spezzata ad ogni singola giocata del suo idolo gettando fuori frasi voluminose e contorte, luculliane, ai limiti del gioco linguistico fine a se stesso, tra slalom tra i cammelli del deserto e il riannodare i fili del proprio destino fino a Rosario. Al suo fianco un posato e sempre più sconfortato Bizzotto, partita dopo partita, che lentamente si arrende alle incursioni del suo infervorato compagno di microfono, riuscendo a comunicare col suo silenzio allo spettatore una sorta di compassionevole invito alla comprensione della situazione. In questi frangenti, personalmente, avverto il problema insito nel commento tecnico di Lele Adani: il suo non è un tentativo vero e proprio di accompagnare l’atto poetico nella sua controparte verbale fino all’orecchio del lettore/spetattore, quanto piuttosto un vuoto riverbero della sua ossessione per il poeta con il numero 10 sulle spalle. In altre parole, Adani non vuole realmente aggiungere con la sua voce poesia alla poesia che ama, tutt’altro: Adani aspira semmai ad essere la glossa erudita dei passi danteschi di Messi, salvo poi inevitabilmente fallire. Questo perché la sua glossa non si risolve nel commento tecnico, ma nell’esaltazione fintamente irrazionale, simulata da una passione certamente genuina ma distorta, del gesto atletico.
Qual è allora la conseguenza, inevitabile e grave per la poetica calcistica, della telecronaca di Adani? Quella, verrebbe da dire piuttosto schiettamente, di asfissiare la poesia del calcio, stringerla con foga tra le mani urlandole in faccia il proprio amore smodato, quasi a recitare la parte del glossatore e critico di fama internazionale dei versi albicelesti. Quella di Adani infatti finisce per essere non la glossa di un erudito della poetica calcistica: semmai, assomiglia di più alla frase esaltata al lato della pagina del commentatore improvvisato, che non coglie e non riesce a trasmettere agli altri la poesia del suo idolo – letterario e non – ma piuttosto nausea il lettore e lo porta quasi a detestare l’opera che ha di fronte. In tal senso, la telecronaca di Adani in questi mondiali che ci ha accompagnato e, con ogni probabilità, ci accompagnerà fino alla finalissima di domenica prossima, rappresenta al meglio ciò che non si deve fare quando si legge e si parla di poesia agli altri: l’esaltazione forzata, la ricerca del tecnicismo tanto cesellato quanto grottesco e senza senso da incastonare nella propria critica esposta agli sfortunati uditori intorno. I cammelli e i maradoneggiamenti di Adani finiscono così per creare una sorta di misticismo sterile che, ad ogni tocco di Messi, umiliano la poesia che traspare dagli strappi del fuoriclasse e la relegano all’angolo delle sue grida grottesche. Lele Adani, infatti – e chiudo – non fa nessuna delle due cose che un telecronista può scegliere di fare quando si siede davanti al microfono di uno stadio: né commenta il gesto poeticamente tecnico (o tecnicamente poetico) né – cosa ancora più rara nelle telecronache di oggi – narra al telespettatore ciò che accade e le storie che stanno dietro a quello che si svolge sul campo. Grida ansimante i suoi commenti al lato della pagina e la poesia appassisce, il canto diventa dissonanza. In questo senso l’adanismo è la perfetta autorappresentazione dell’idolatria del superfluo: nessuna narrazione, appunto, né reale descrizione tecnica ma solo il grido esasperato della pura e strabordante estetica fine a se stessa, che nelle immaginazioni di tuareg nel deserto inginocchiati ai piedi di Messi diventa impacciato caos linguistico barocco, voce strozzata di un (involontariamente falso) profeta invasato. Il fútbol rimane allora inquinato da quella tendenza, tutta contemporanea, della fascinazione per l’estetica antinarrativa che, ad esempio, trova nella serialità televisiva e nella cinematografia in genere la sua controparte nella ricerca del plot twist esagerato e voluminoso, della fotografia lussuriosa e della concentrazione spasmodica sull’unica performance della star al centro di tutto, lasciando alle spalle il resto: non c’è, appunto, narrazione e poetica ma solo il grido autocompiaciuto del regista e dei suoi collaboratori dietro la macchina da presa, come le sgroppate e gli sbuffi vocali del nostro telecronista-vate accanto al malcapitato Bizzotto.
Come vademecum per la finale e le prossime gesta calcistiche che avranno la sfortuna di essere accompagnate dall’asfissia antipoetica dell’adanismo, allora, teniamo a mente le parole di Rilke:
[3] E torniamo, come abbiamo già fatto più volte qui su Radura Poetica, ad Owen Barfield, Poetic Diction, A Study in Meaning, Faber & Gwyer Limited, London, 1928. pp. 105-7.
[4] Giacomo Leopardi, A un vincitore nel pallone, in Canti, Bur Rizzoli e Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018, vv. 60-5.
[5] P. P. Pasolini, Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori.
[6] Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo, I 3, traduzione di R. S. Virgillito, Garzanti, 2019, vv. 12-4.
Nei versi di Gian Piero Stefanoni, tratti dalla raccolta Il tuo sacerdote (2022, dal blog La poesia e lo spirito), il ritmo si contrae in gruppi ristretti di versi, di strofa in strofa, quasi a singhiozzo. In tal senso, la particolare scansione musicale del verso sembra mimare quel collasso della parola che l’io canta nel suo racconto poetico dove, sotterraneamente, voci minute narrano la storia che nel frattempo accade legando strofe e versi dall’uso ripetuto e cesellato di assonanze.
È un mondo, una terra, quella descritta immutabile e caotica all’interno della quale l’io-Everyman si muove al buio tra pietre e legni duri e freddi che rimandano ai colpi subiti sul sentiero multiforme intrapreso: dentro di esso l’uomo porta con sé una domanda inesaudita e dimenticata mentre naviga a vista sulle maree terrestri. Tuttavia, è qui che si innesta una fede all’interno della quale riposa un riscatto, una risposta che eccede sempre la richiesta e la domanda stessa dell’uomo in un conforto: essa non spiega le sue ragioni ma ristora, riaccendendo all’interno di sé un mutamento che gridi alla storia.
trovarsi a rovistare silenzi tra residui di stelle appena la
notte si congeda
poi schiarire memorie e puntare il cuore dritto al sole
come se fosse la rotta di una meta sicura
chissà se l’amore percorre lo stesso sentiero di giorno
e ogni gesto è la copia fedele di ciò che pulsa al buio
sopra le nuvole
magari il posto dei nostri abbracci non cambia.
* * *
Gli echi della vita già stata
Arrivano a raffica sparsi
gli echi della vita già stata
stanno sotto protezione degli astri
le volte che ci siamo amati
con tutta la volontà delle ossa.
Mi fanno visita scalzi i ricordi
dall’alto di un silenzio che conosce il resto
di una notte tanto vicina quanto lontana.
Si è decisa a ritornare la stessa luna
che ci aveva abbagliato gli occhi
è venuta a dirci che per luglio
dovremo stare in ascolto della ginestra
dovremo riabituare il corpo
ad uscire dal tempo
l’estate è sulla punta della memoria
non si scosta dalle eternità pronunciate.
* * *
In qualche mondo
In qualche mondo
la distanza di terra, aria, pensiero
diverrà neve calpestata, luce respirata dallo stesso lato
alba che sa guarire le sbarre di un confine.
Avranno dimore così vicine le nostre esistenze
che sarà sufficiente tenere l’andatura del sole
tra le piante di tè.
Potrebbe accadere che l’orizzonte chieda
di avvicinare più germogli alla luna e che una notte remota
acconsenta.
La vicinanza è un’alba annunciata sopra un corpo di stelle
che sfocia tra rami d’argento.
* * *
Nelle sue poesie, tratte dalla raccolta Recupero dell’essenziale (Interno Libri Edizioni, 2022), Michela Zanarella fa uso di una rarefazione della punteggiatura portata, a volte, quasi allo stremo dove però il ritmo, l’andamento sintattico di un verso dopo l’altro sono dati dalle numerose assonanze poste alla fine dei versi stessi. C’è, dunque, un fluire riconoscibile dato dai suoni delle parole che si legano le une alle altre formando, di conseguenza, un sentiero attraverso il quale il racconto poetico può distendersi.
È nella narrazione che, infatti, emerge con chiarezza il tema della memoria di sé e degli altri che ruotano attorno ad esso e, accanto (o meglio, sopra) a questo, l’elemento celeste tra le sue varie forme (dal vento alla neve), i suoi momenti (dall’alba alla notte) e i suoi attori principali (il sole, la luna, le stelle). Così, ogni ricordo dal quale scaturiscono immagini narrate si lega metaforicamente – ancor prima che visivamente – al cielo e, soprattutto, alla sua luce che sembra allungarsi e toccare i ricordi terrestri. Non importa se questa luce sia notturna o diurna, quanto piuttosto come la sua tangibile presenza ribadisca una sorta di continuità con degli spazi superiori percepiti come eterni e ad i quali ispirarsi, per i quali nutrire una ricongiunzione che nel qui-e-ora dell’io poetico è annunciata ed allusa, nel frattempo, dalla parola. In questo senso, allora, il sentiero terrestre narrato dalla pagina alza costantemente lo sguardo sopra di sé, nell’attesa di un parallelismo che si risolvi in una fusione.
Nella poesia di Giuseppe Settanni – con suoi i versi tratti dalla raccolta Affreschi strappati (Edizioni Ensemble, 2022) – emerge chiaramente, tanto sul piano sintattico quanto su quello estetico, una tensione alla disgregazione formale e lessicale, al disperdersi nello spazio bianco del racconto poetico che mima così la dispersione interna dell’io il quale, inevitabilmente, si ritrova ad usare parole che fanno da eco a questa realtà interiore frammentata. In maniera interessante, ogni “frammento” da cui il singolo testo è composto evoca, attraverso l’uso di parole concrete tra aggettivazioni forti e termini specifici, immagini ruvide e tuttavia fortemente evocative: una sorta di isole di eventi a sé stanti che la parola poetica raggiunge saltando da una riva all’altra, da una strofa a quella seguente per annotarne, tuttavia, il loro rimanere all’interno di un medesimo arcipelago narrativo che allude ad una sua voce e continuità propria.
Sfruttando la brevità dei versi, il ritmo che ne consegue risulta conciso e scandito con forza da ogni interruzione narrativa: il risultato è una serie di sentenze poetiche narranti che, seppur nella loro concisione, riescono a rimandare il lettore a spazi di senso ulteriori da approfondire. In questi paesaggi di parole disperse sembra, nonostante tutto, rimanere aperto un passaggio per una ricomposizione che, però, è ancora di là da venire: la voce e gli strumenti del canto sono, appunto, disgregati e non possono accoglierne l’invito a proseguire. Forse la durata riposa nel ritmo che ancora, lievemente, lega tra di loro le parole dell’io.
quando si stende dalla prima all’ultima lettera, perché non sembra mio
e mi sembra così stanco da voler sparire.
Sono nel vento che asciuga capelli e lenzuola;
nella mia fantasia infeltrita,
sulla punta della lingua,
pronta a sciogliersi in
baci
e parola
per chiedere alle nuvole che ora è.
È l’ora delle cose impossibili.
* * *
Tityrem tu patulae
Tityre, tu patulae
recubans sub tegmine fagi
spezzo il verso
come fosse pane
e fra me e me mi pasco
di nuvole, prati e briciole di pane,
quelle che raccolgo
nel silenzio della sera.
Come pane duro fra i denti
mastico forte il tempo che fugge.
* * *
Le poesie di Doris Bellomusto si caratterizzano sin da subito per i versi spezzati e irregolari che le costituiscono, quasi a mimare la ricerca affannosa delle cose che canta l’io attraverso il racconto poetico che avanza a singulti e, tuttavia, resta legato da un ritmo che trova la sua coerenza interna tra ripetizioni lessicali e parole derivate inanellate con decisione l’una dietro l’altra. Così, ogni verso suona ben scandito dall’uso mirato e misurato delle pause sintattiche mentre si accorda, nel frattempo, alla musica, ai suoni lessicali di quelli che lo precedono e lo seguono.
Attraverso questa costruzione poetica spicca, come accennato, la ricerca da parte dell’io – che utilizza la stessa, implicitamente, per raccontarsi – di una vicinanza assoluta, tattile e verace con le cose del mondo esterno per trovare una comunione con esse. Da qui dunque il “gioco” della poesia nel senso stesso del lusus (come quello con la citazione dei versi virgiliani) attraverso le cui parole, i cui espedienti retorici (su tutti, la similitudine spesso a chiudere visivamente con forza il singolo componimento) poter dare consistenza, corporeità a quelle cose percepite forse come sfuggenti e incorporee tra le proprie dita. Così, la parola poetica rassicura sulla loro esistenza e, di riverso, su quella di chi utilizza la poesia stessa per confermarsi all’interno del mondo.
Le poesie di Mariapia Crisafulli, tratte dalla sua raccolta La vita là fuori (Macabor, 2021), si palesano attraverso versi spesso irregolari che mimano un andamento alterno e avvolgente mentre l’io, da dietro le parole, distende il suo canto man mano. In questo percorso metrico, tra una strofa e l’altra, molta attenzione è riservata in maniera chiara e precisa alla musicalità che scorre nei componimenti stessi: in particolare l’uso di anafore e altre ripetizioni dà luogo a un ritmo cadenzato, a volte quasi rituale mentre si aprono davanti agli occhi del lettore le immagini evocate dalle parole. A completare il canto, le varie rime e assonanze inserite spesso negli spazi tra i versi dove si muovono i punti significativi della narrazione poetica, aumentandone così il climax ed esaltandone il senso.
All’interno di questo racconto emerge con forza e delicatezza al tempo stesso la ricerca di una presenza amata attinta tuttavia a partire dalla sua assenza: essa non sembra coincidere con un solo punto focale della vita, con una sua singola entità, ma con la vita stessa mostrandosi come ostinata resistenza a uno scorrere del tempo, dei giorni, avvertito con ansia attraverso immagini sia quotidiane sia di una storia più generale e umana. Così, anche la morte che emerge da tempo rimane all’interno e non accanto mentre l’io aderisce ancora alla vita toccandone le cose: c’è ancora un sentiero da seguire, mediato dalla poesia, dove trovare un ritorno.
Nelle poesie di Simone Migliazza spicca sin da subito l’attenzione per le cose “minute” del vivere quotidiano che, cantate dalla poesia, riescono nel loro tentativo di non dire altro che sé stesse, trovando un’efficacia del loro stesso significato di fronte all’io che le osserva proprio grazie alla loro semplice, asciutta ed essenziale presenza che resta lì, ineludibile. Questa efficacia dell’essenzialità del dire poetico si rispecchia, formalmente, nella costruzione dei versi stessi: il ritmo è scandito in modo certo e puntuale da un uso deciso della punteggiatura che, delineandosi man mano, dà luogo a brevi frammenti quasi, sentenze che si susseguono l’una dietro l’altra in maniera ordinata.
Tuttavia, lo stesso uso non casuale di assonanze e rime crea un collante, una linea unificatrice per ogni singolo pensiero poetico formando un canto che, appunto, trova una sua unità narrando le cose semplici e immediate attraverso un io che sceglie con cura ogni singola parola per mantenere viva la loro efficacia di senso. Così, le cose stesse della quotidianità narrata trovano un’unità tra di loro, un significato ultimo che le parole sembrano suggerire e indicare a chi sta loro di fronte, in attesa.
io non sono resistente non sono un corso d’acqua non corro lo stesso oltre l’ostacolo ricavandomi un nuovo sentiero io sono
la diga
sono la diga e talvolta l’acqua ferma
e sono così stanca della narrazione
reticente
della retorica delle donne
resilienti
io sbaglio taglio mi pento mi dolgo dei miei peccati
perché peccando ho meritato i tuoi castighi
e mi dolgo dei miei castighi perché li ho meritati perché io sono non sono affatto mai divenuta una donna forte
io poltrisco dentro alle federe usurate dei cuscini da notte
mi fingo ribelle esule persino mi fingo eretica e invece pratico
l’ortodossia ogni mese
quattro giorni al mese ventotto anni dovrei avere già un figlio secondo alcuni
(mio padre lo vedo che freme vorrebbe
sapermi meno sola)
ma il mio corpo non è adatto
ad accogliere
il mio corpo è negligente e si nega
alla gente
si nega
a me stessa si nega
e prega
* * *
Stratega
quand’è che arrivi? mi hai detto che vieni
e da allora
aspetto ogni ora che tu
mi dica: non vengo più
(sarebbe perfettamente normale:
amare è un fatto del costruire;
la strategia si pone come obiettivo la compensazione della reciproca malattia;
come faremmo mai io e te
con tutta questa
malinconia?)
* * *
Prosaica
tutta questa bellezza e io sempre
così distante immacolata
volgare vergine di provincia
ai santi le cose dei santi
* * *
Nelle poesie di Valentina Cottini spicca con forza l’assenza completa di punteggiatura a favorire un ritmo della narrazione poetica, verso dopo verso, quasi straripante tra ripetizioni scandite e puntuali delle parole e quasi ossessiva nell’impastare un flow – per utilizzare un termine che sembra adatto ai testi in questione – che riporta a volte al più genuino esempio di poetry slam. In questo fluire narrativo, tra impennate e salti metrici, si scorge il forte uso del proprio corpo come luogo esposto alle sofferenze e agli urti che l’io racconta e rivolge su di sé, una mappa attraverso la quale cantare la propria indisposizione verso categorie sentite non proprie e asfissianti, il rifiuto di far colare il proprio essere in forme predefinite alle quali non ci si può più permettere di adattarsi.
Attraverso questo spazio aperto grazie alla parola poetica, ai suoi ritmi a velocità e direzioni alternative da seguire, sembra aprirsi a sua volta la possibilità per l’io di ridefinirsi come donna, come corpo a sé stante, di abitare i luoghi vincendo il sentimento di una lontananza dalla bellezza delle cose che circonda: trovare così, nonostante la malinconia del mondo, una forza d’amore che sia, appunto, tra le varie forme attraversate, un costruire e trovare, un trovarsi insieme e un luogo dove stare.