Gente di montagna – dedicata a Pietro
Occupano come immense donne
la sera:
sul petto raccolte le mani di pietra
fissan sbocchi di strade, tacendo
l’infinita speranza di un ritorno.
Mute in grembo maturano figli
all’assente.[1]
Sono nato in autunno:
come la gente di montagna era solito dire mio padre –
nell’eco materno
delle madonne immacolate
che innalzavano i loro silenzi al cielo
senza sfiorarlo mai –
tra fiori di tarassaco
che bussando alla porta umida di leggende e di ritorni
mi davano il benvenuto –
davanti a un neo d’ombra
che si dischiudeva ad ampi cerchi d’aquila
nel benedire la mia storia –
con l’odore della pioggia a stemperare quello della grappa
nel definire l’ombelico della terra
dove si posavano le fate,
azzurre come la luna quando ricordava
a ognuno il suo posto.
Il respiro ancora imbevuto di liquido amniotico
si condensava nei passi di cerva
che impercettibilmente risvegliavano i larici
l’attesa veniva curata dalle guglie
quando si lasciavano corteggiare dall’orizzonte in un inchino
all’aurora la pace dei sogni.
Sono nato in autunno:
come la gente di montagna era solito dire mio padre –
nella profezia del mio nome.
* * *
Lucciola tra sogni che imboccano il cielo (a Manny, il mio cane che mi assomiglia-va)
Cosa seminano i miei occhi per l’ultima volta
prima di congedarsi a questa vita
in un soffio di rugiada?
Forme che scivolano in un risucchio d’ombra
dove si mescolano gli assoli
di chi ho amato,
l’affanno buono nella carezza di Dio
quando si apre alla certezza
che qualcosa è iniziato,
l’origine che profuma di margherite a marzo,
il mondo fragile ma bello
che scompone il mio sguardo
dalla forma di una foglia
che sorride
ci sono troppi ricordi a farsi strada
in questo silenzio,
fanno orbitare il mio cuore
in un valzer di vendemmia affinché non scordi niente,
resiste un solo desiderio
nella striatura grigia del pelo,
la favola più bella prima di concludere
il mio addio.
E adesso che non sono più crocifissa
ai piedi della pioggia,
nuda d’imbrogli e di follia,
lucciola tra sogni che imboccano il cielo,
mi veste la promessa che avevo fatto a me stessa
prima che mio padre potesse decidere
il mio nome.
* * *
Il presepe dai due bambini Gesù – dedicata a Nicola e Mattia[2]
E la luna è una palla, e il cielo è un biliardo[3]
E li ricordo insieme nella loro creazione, Nicola e Mattia,
come due assoli d’uomo
stretti a illuminare il grembo dell’orizzonte
nel quale si formava il primo passo tremulo di due vite in una
attraverso il girotondo delle stagioni,
pronti per schiudersi in uno spazio lontano dalle ombre
dove al respirare sottopelle del cielo
nella scia di sogni che addolcivano l’attesa
si incontravano le favole più belle
di fate che ricamavano con le margherite
arcobaleni per occhi lucidi di assenze,
angeli che seminavano l’azzurro
nei cuori ancora umidi di speranza,
di balene che si corteggiavano in una eco d’argento a mezzanotte
quasi a ricordare che dall’infrangersi di un giorno
ne nasce sempre uno nuovo,
di stelle comete che si tuffavano sulla terra
nella preghiera di un bambino
e frammentavano tra le corde di chitarra
di una ninnananna.
E li ricordo insieme in una sola promessa, Nicola e Mattia,
con la quale salvare la parte buona del mondo,
fare del caos dei giorni perfetti,
dare un nome al presente,
annodare le paure come un mazzo di rose con cui confermare la volontà alle parole
e rendere il loro cuore una casa.
E li ricordo insieme nel loro presepe d’amore, Nicola e Mattia,
a scaldare infaticabilmente, come fanno quei padri che non sanno di essere anche eroi,
il loro essere due bambini Gesù.
Nella poesia di Davide Rocco Colacrai, tratta dalla sua raccolta D come Davide – Storie di plurali al singolare (Le Mezzelane casa editrice, 2023), si tocca con mano un’evidente tensione narrativa. Per l’io che canta, infatti, i versi diventano mezzo per raccontare una storia – che sia la propria o di altri – all’interno della quale si muovono personaggi ben distinguibili, in un continuo e cosciente dialogo con le voci di altri autori passati e presenti, come si nota chiaramente dalle varie epigrafi in apertura di ogni componimento.
In tal senso, le storie narrate si compongono man mano attraverso il sovrapporsi di numeroso immagini evocate dalle parole una dietro l’altra, seguendo un ritmo corposo, tra versi che si allungano e distendono il più possibile per cristallizzare una scena ed altri che si contraggono per proseguire verso il prossimo volto, la prossima inquadratura di lato. In particolare, la descrizione essenzialmente metaforica delle immagini rende quest’ultime mai fini a se stesse: al contrario, ancorano ad esse i personaggi che si muovono al loro interno in una forte continuità lirica. Il canto così non né tanto e solo narrazione descrittiva ma, appunto, unione di un luogo ad un io in cammino che ogni volta, narrandosi, si riscopre ad abitarsi.
- Paolo Andrea Pasquetti, 4 Aprile 2023
[1] Le Montagne, Antonia Pozzi.
[2] Nicola e Mattia sono i protagonisti, e Mattia anche l‘autore, del libro Lo capisce anche un bambino – Storia di una famiglia inconcepibile, Feltrinelli, 2021.
[3] Lucio Dalla, Anna e Marco.