Tre poesie da Inchiostro di Giorgia Leuratti

#25

Ancora impigliato

tra i fili perlacei del sonno

limbo caduco

d’irreale parvenza.

Narrazioni incorporee

rilucenti gli spettri, i varchi.

Mente come umido plasma

assorbe le rotte inconsuete.

Precipita! Tace!

Entro luoghi di ruggine

una donna rincorre la vita.

* * *

#28

Non rischierò il braccio

per saperti difforme

per affliggere

smaniosa

le corde ruvide

del mio fulgore.

Un tempo troppo grande

esiguo e pregno,

di nicchie scivolose.

* * *

#35

Su corridoi bui

la luce assaliva le finestre

sostavi sulle poltrone

e ne incurvavi le morbidezze

mentr’io ero rigida

rigida e assorta

su malinconie circolanti.


I versi di Giorgia Leuratti, tratti dalla sua raccolta Inchiostro (Robin Edizioni, 2022), si innestano su una forte riproposizione di antitesi sensoriali – dalla vista all’udito e così via – attraverso le quali l’io tenta di narrare col canto una realtà che ondeggia ad ogni movimento e sguardo, mutando i suoi contorni verso dopo verso. Un canto che, in tal senso, sembra caratterizzato da un ritmo dissonante, che procede a strappi verbali da una pausa sintattica all’altra: un mimare la stessa labilità dell’esperienza vissuta da chi ora, sulla pagina bianca, la racconta tentando una forma riconoscibile alla quale appellarsi.

Così, il racconto poetico si fa racconto della ricerca di un corpo, di un contorno stabile grazie al quale riuscire ad abitare il mondo con sé e con l’altro che scorre acconto nella sua corporeità non meno difforme: trovare dunque una parola che dica e delimiti, definisca le cose nelle quali restare.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 27 Aprile 2023.

Tre poesie da Canti del ritorno di Paolo Andrea Pasquetti

Attraversiamo da soli

questi mondi in contrasto.

La gente passa e canta staccata

dietro di noi, senza

ricordarci. Ogni volta che

spezzo un ritmo mi

ritrovo a ricordare:

forse perché vorrei solamente

unire senza dover

guardare per forza dentro

i bulbi, analizzare d’istante

i sogni che tocco con mano

e mi causano allergie

estrinseche. Cerco di

dare corpo alle cose che

mi si avviluppano intorno

per poi cadere: non

posso afferrare, non

declinare o coniugare in

forme, non ora. Avviene

sempre una distrazione

che mi cinguetta sopra e

fa dubitare in ogni

punto distratto e distaccato,

quasi fosse un colore

lontano che mi ritorna.

Rimangono solo le cose solite

che possono accompagnarmi

fino a ricollegare, ancora,

quello che c’è.

* * *

Nel sintagma di un mio

cammino, su sentiero

rialzato, m’accorgo che nessuno

più canta. M’ispira solo la

voce d’un amico a rammentarlo.

* * *

Forse il mondo non è stato

più quello di prima,

forse la morte ha ricavato

angoli che non sapevamo

esistere tra di noi, scostati

all’interno dei nostri fraintendimenti.

Scrostare poi la scorza dura

dal nocciolo del sé rimasto

sul fondo è difficile, andare al

cavo che abbraccia e confonde

i colori che un tempo scorgevi

senza attenuare.

   

Vorrei semplicemente che il

mondo ricresca dopo essere

stato calpestato: com’è

possibile tornare alle cose?

Guardare crescere lentamente

i corpi nei solchi una volta

coperti con cura?

E ora stanno spenti

sullo sfondo della tua

visione, chiedendo un

riscatto da offrire in dono.

   

Ma le storie di un tempo

sono lontane e impietrite sulla

lastra sbiadita:

mi evochi forze e figure di

sogno che attestano i miei

tocchi, rimandano indietro

le incrinature della soglia per

indicarmi la meta che coincide

con l’intorno che scorre e vive

da sé, sporcato dalla luce

appoggiata sui nodi connessi

a un proseguire delle cose.

Incordano un canto che sa:

questa è una parola che

ascolta e dice, forse, i mondi

e riavvolge le membra

una sull’altra.

Mi chiede d’inoltrarmi nel

crepuscolo stanco dei giorni,

aprire le sorti rimaste inattese

nel buio, di chi spera scorgere

ancora una foglia

scuotersi al vento che

dona, strusciare sulla

pietra che suona ritorta

dall’acqua scurita, cercando

un abbraccio.

Il canto è spezzato, la

mano ancora rigida nell’ombra:

un’estate che muore lenta

in un freddo che tarda i

suoi passi ma copre, un

frutto che pesa sui

rami e non cade.


I Canti del ritorno non sono una semplice raccolta di poesie eterogenea, bensì formano un libro coeso e a sé stante, centrato su un tema specifico: la morte. La narrazione infatti si articola in quattro sezioni, ognuna introdotta da una breve prosa poetica a cui seguono una serie di componimenti. A questa struttura viene affidato il compito di narrare la ricerca da parte dell’Io di un canto attraverso il quale ritornare a una dimensione esistenziale autentica che abbracci l’esperienza di morte che anima il viaggio. Un viaggio che, sezione dopo sezione, attraversa il ciclo delle stagioni e le varie fasi del giorno – dalla primavera all’autunno, dalla mattina alla notte – formando un vero e proprio percorso di indagine esistenziale ed espressiva dove lo stile poetico si evolve nella ricerca del canto ristoratore agognato. La storia ha inizio e si chiude nell’ottica di un cammino che si dipana di fronte a chi tenta la parola, mostrandogli la via.

Canti del ritorno, Paolo Andrea Pasquetti, AttraVerso edizioni, 2023

Il libro è disponibile in preordine al seguente link: https://www.edizioniattraverso.it/negozio/Preordine-Canti-del-ritorno-p544337144

  • Radura Poetica, 6 Marzo 2023

Tre inediti di Matteo Piergigli

 29/01

una lacrima sala

la guancia, ti accolgo

come un diluvio

dietro il muro fuggono

le parole, una luce

tiene per mano

* * *

21/02

delle case piene

di felicità declassata

una sedia vuota vocaboli

fossili, essere un dopo

di unghie arrese al metallo

sono in te nel silenzio

il tuo grido

* * *

11/03

ho paura di non riconoscerti

stanotte stiamo insieme, di noi

ricordi confusi una marionetta

che ha visto i fili può strapparli


Le poesie di Matteo Piergigli sembrano distinguersi per un ritmo sincopato e conciso, all’interno del quale l’io esprime – tramite l’accostamento di immagini e suoni ulteriori evocati dalle prime – slanci e squarci (proprio per la loro stessa brevitas) di vita autentica e, spesso, ruvida nella sua stessa rappresentazione lirica. Ciò è reso possibile anche grazie al gioco ad alternanza di segmenti di versi a “fluire continuo”, senza alcuna presenza di punteggiatura, alternati e quasi “incastrati” da versi più brevi e lambiti dall’uso della virgola che cala con forza sul verso a dettare il ritmo descritto poco sopra.

All’interno di questa particolare costruzione ritmica, l’io affonda la narrazione nell’appello accorato ad un tu attraverso il quale si delinea il disegno di una vita “duale” vissuta a sprazzi, con pennellate marcate per la non meno costante pratica di accostare con cura, da parte dell’autore, un’aggettivazione corposa a quasi ogni singolo termine. Il risultato è, appunto, una serie di strappi visivi, tra aggettivazioni e sincopi ritmiche, attraverso i quali l’io ricerca una durata da condividere all’interno del mondo; una pausa del fiato dove rimanere.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 18 Aprile 2023

Tre poesie da D come Davide – Storie di plurali al singolare di Davide Rocco Colacrai

Gente di montagna – dedicata a Pietro

Occupano come immense donne
la sera:
sul petto raccolte le mani di pietra
fissan sbocchi di strade, tacendo
l’infinita speranza di un ritorno.

Mute in grembo maturano figli
all’assente.[1]

Sono nato in autunno:

come la gente di montagna era solito dire mio padre –

nell’eco materno

delle madonne immacolate

che innalzavano i loro silenzi al cielo

senza sfiorarlo mai –

tra fiori di tarassaco

che bussando alla porta umida di leggende e di ritorni

mi davano il benvenuto –

davanti a un neo d’ombra

che si dischiudeva ad ampi cerchi d’aquila

nel benedire la mia storia –

con l’odore della pioggia a stemperare quello della grappa

nel definire l’ombelico della terra

dove si posavano le fate,

azzurre come la luna quando ricordava

a ognuno il suo posto.

   

Il respiro ancora imbevuto di liquido amniotico

si condensava nei passi di cerva

che impercettibilmente risvegliavano i larici

   

l’attesa veniva curata dalle guglie

quando si lasciavano corteggiare dall’orizzonte in un inchino

   

all’aurora la pace dei sogni.

   

Sono nato in autunno:

come la gente di montagna era solito dire mio padre –

nella profezia del mio nome.

* * *

Lucciola tra sogni che imboccano il cielo (a Manny, il mio cane che mi assomiglia-va)

Cosa seminano i miei occhi per l’ultima volta

prima di congedarsi a questa vita

in un soffio di rugiada?

   

Forme che scivolano in un risucchio d’ombra

dove si mescolano gli assoli

di chi ho amato,

l’affanno buono nella carezza di Dio

quando si apre alla certezza

che qualcosa è iniziato,

l’origine che profuma di margherite a marzo,

il mondo fragile ma bello

che scompone il mio sguardo

dalla forma di una foglia

che sorride

   

ci sono troppi ricordi a farsi strada

in questo silenzio,

fanno orbitare il mio cuore

in un valzer di vendemmia affinché non scordi niente,

resiste un solo desiderio

nella striatura grigia del pelo,

la favola più bella prima di concludere

il mio addio.

   

E adesso che non sono più crocifissa

ai piedi della pioggia,

nuda d’imbrogli e di follia,

lucciola tra sogni che imboccano il cielo,

mi veste la promessa che avevo fatto a me stessa

prima che mio padre potesse decidere

il mio nome.

* * *

Il presepe dai due bambini Gesù – dedicata a Nicola e Mattia[2]

   E la luna è una palla, e il cielo è un biliardo[3]

E li ricordo insieme nella loro creazione, Nicola e Mattia,

come due assoli d’uomo

stretti a illuminare il grembo dell’orizzonte

nel quale si formava il primo passo tremulo di due vite in una

attraverso il girotondo delle stagioni,

pronti per schiudersi in uno spazio lontano dalle ombre

dove al respirare sottopelle del cielo

nella scia di sogni che addolcivano l’attesa 

si incontravano le favole più belle

di fate che ricamavano con le margherite

arcobaleni per occhi lucidi di assenze,

angeli che seminavano l’azzurro

nei cuori ancora umidi di speranza,

di balene che si corteggiavano in una eco d’argento a mezzanotte

quasi a ricordare che dall’infrangersi di un giorno

ne nasce sempre uno nuovo,

di stelle comete che si tuffavano sulla terra

nella preghiera di un bambino

e frammentavano tra le corde di chitarra

di una ninnananna.

   

E li ricordo insieme in una sola promessa, Nicola e Mattia,

con la quale salvare la parte buona del mondo,

fare del caos dei giorni perfetti,

dare un nome al presente,

annodare le paure come un mazzo di rose con cui confermare la volontà alle parole

e rendere il loro cuore una casa.

   

E li ricordo insieme nel loro presepe d’amore, Nicola e Mattia,

a scaldare infaticabilmente, come fanno quei padri che non sanno di essere anche eroi,

il loro essere due bambini Gesù.


Nella poesia di Davide Rocco Colacrai, tratta dalla sua raccolta D come Davide – Storie di plurali al singolare (Le Mezzelane casa editrice, 2023), si tocca con mano un’evidente tensione narrativa. Per l’io che canta, infatti, i versi diventano mezzo per raccontare una storia – che sia la propria o di altri – all’interno della quale si muovono personaggi ben distinguibili, in un continuo e cosciente dialogo con le voci di altri autori passati e presenti, come si nota chiaramente dalle varie epigrafi in apertura di ogni componimento.

In tal senso, le storie narrate si compongono man mano attraverso il sovrapporsi di numeroso immagini evocate dalle parole una dietro l’altra, seguendo un ritmo corposo, tra versi che si allungano e distendono il più possibile per cristallizzare una scena ed altri che si contraggono per proseguire verso il prossimo volto, la prossima inquadratura di lato. In particolare, la descrizione essenzialmente metaforica delle immagini rende quest’ultime mai fini a se stesse: al contrario, ancorano ad esse i personaggi che si muovono al loro interno in una forte continuità lirica.  Il canto così non né tanto e solo narrazione descrittiva ma, appunto, unione di un luogo ad un io in cammino che ogni volta, narrandosi, si riscopre ad abitarsi.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 4 Aprile 2023

[1] Le Montagne, Antonia Pozzi.

[2] Nicola e Mattia sono i protagonisti, e Mattia anche l‘autore, del libro Lo capisce anche un bambino – Storia di una famiglia inconcepibile, Feltrinelli, 2021.

[3] Lucio Dalla, Anna e Marco.

Tre poesie da Limpida a guardare di Michela Silla

Se perdo te

perdo

   

le braccia nude

e me straniera

sugli abiti stirati;

   

perdo il gioco

di dèi inanimati,

   

il dolore che ride,

la mano sulla testa

a benedire torti.

   

Se perdo te

perdo

   

ago e filo

che mi tengono unita

   

e rabbia nei cassetti,

noia grigia per creare.

   

Se perdo te

che sei il seme,

la prova,

il tentativo malriuscito

di sovvertire

   

e corse a metà

di amori rifatti;

   

se perdo te,

   

mi spargerò sull’avvenire

senza convinzione.

* * *

Ho raggiunto il capolinea,

non ho più vestiti addosso:

vedo il fondo del bicchiere.

   

Trabocca sole

dal palmo della mano.

   

Scompare la paura

di essere abbastanza.

* * *

Chiami cose di vento,

capovolte

in disparte,

col vestito di sole.

   

Chiami tutte le volte

in cui voglio sparire,

   

cadere,

volare.

   

Chiami stanze di libri

dove cerco risposte,

   

chiami argento

e una notte,

una notte d’estate:

   

non so ancora perché,

ma mi vedo ballare

   

con te

   

io mi vedo brillare.


La poesia di Michela Silla, tratta dalla raccolta Limpida a guardare (Transeuropa Edizioni, 2022), si innesta su un dialogo serrato e denso con un tu onnipresente, centro attorno al quale l’io sembra gravitare e scivolare tra le sue traiettorie ellittiche sia suo malgrado sia con affezione ancora resistente, seppur scalfita dal tempo delle cose svolte e, in parte, perdute. In tal senso, il corpo di questo scambio a due – guidato tuttavia da una sola e insistente voce – è dato proprio dalle numerose anafore che inframezzano i versi, ora la verbo della prima persona che cerca e chiama ora a quello della seconda che viene descritta nella sua mancanza: ed il giro voluminoso attorno al ricordo del tu è scandito dalle assonanze che regolano il ritmo delle immagini di volta in volta evocate.

Così il dialogo diventa man mano anche dialogo interiore, tentativo di comprendersi meglio attraverso sprazzi di luce che, tramite le immagini rammemorate, illuminano l’io il quale si (ri)scopre nei propri limiti e contorni, nell’attesa che combacino con quelli di un altro e trovare il  proprio luogo.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 28 aprile 2022

Tre poesie da Scritti d’inverno di Marina Minet

Potessi appartenerti

Potessi appartenerti, terra

meriterei un ricordo, la tregua in fondo agli occhi

e un treno per tornare senza voltarmi indietro.

Terra che non piangi, sul banco del macello

non diffidare mai di queste braccia

per le proteste mute che avvolgono d’inverno.

   

Ho visto le stagioni offrire la pietà ai rami in decadenza

e il grigio delle nubi cadere sopra i palmi dei bambini

come una preghiera

e ho visto facce scansare la ragione

attese fermate nella gola come spine

e il fango della lingua coprire anche le idee.

   

Potessi appartenerti

come la polvere che vigila le strade

riposerei in disparte – ai margini del vento –

sicura d’invecchiare.

   

Tu sei la terra che aspetta le radici.

La gola che divora l’agonia

e il volto dei calanchi icarna ogni perdono

quando le nostre labbra si schiudono nel Sinni

disteso

come il seno di una vecchia.

* * *

Vicoli

In questi vicoli

si aggirano le rughe della gente

come non le avevo mai vedute

ostili

naturali

come il gelo che s’innesta sulla terra.

   

In questi vicoli sfuggenti ad ogni sguardo

si aggira anche il perdono

e la preghiera si spezza in mezzo ai denti

sfinita

fra un grano di rosario

e una bestemmia.

   

In questi vicoli insabbiati

come umide trincee

chiudo a chiave le porte

diffidando del tempo

che abbandona

le grondaie

al loro pianto.

   

Da dietro le finestre

osservandoli riflessa

li sento miei un istante

– talvolta

se il sole si ricorda

che anche loro si cibano di luce

al suono del tuo passo che ritorna.

* * *

Guardando l’orizzonte

Io non so com’eri ieri

terra che fai male, come un lutto.

Se uguale ad ora ti specchiavi nelle pozze

scavando le voci delle vecchie

per renderle infantili come un tempo

quando al buio anche i santi pregavano a rovescio

e i piedi sulla strada sfidavano le scarpe.

   

Terra d’avara confusione, chi pregherà con te

vuotando i battisteri fino al grembo

non c’è nessuno a ungere le falci tra i covoni

per frammentare il grano a spigoli di sogni

il tanto di invecchiare la gioia e le stagioni.

   

Maria che è nata qui

ti serve di nascosto ogni mattina

temendo la salita con il gelo

e chiede due monete per le uova e i soliti boccacci

voltandomi le spalle un po’ dubbiosa

per non mostrare il volto

di chi non ha più attese.

   

Egidio pensa a ciò che non sa dire

e che lo porta via – come la pioggia

poi sorride senza fiato dopo l’orto

ferendomi al ricordo di mio padre

mentre i suoi calli si spaccano stagnanti

piantandomi nel cuore un osso nuovo.

Terra che fai bene, come l’amore.

Io non so cos’è questo formicolio diverso

che mi trapassa lento – succhiandomi la pelle come un

figlio

questo adorare invano che adesso mi appartiene

   

guardando l’orizzonte così vicino agli occhi.

* * *

La poesia di Marina Minet, tratta dalla sua raccolta Scritti d’inverno (PrinMe Editore, 2017), è vigorosamente narrativa: attraverso il suo susseguirsi dei versi prende con decisione la parola un io intento nel suo dialogo con il mondo e le sue cose nel tentativo di tracciarne una descrizione che, grazie al canto, ridoni senso ai suoi occhi. In tal modo, mediante strofe corpose eppure fluide nei loro versi liberi – talvolta quasi sgretolati nei loro confini visivi sulla pagina – si delinea nei componimenti un modulato gioco a incastro delle immagini: immagini significative e dipinte verbalmente attraverso un non meno pesato uso delle singole parole, giocando infatti con capace manualità nell’accostare termini semplici, schietti, per creare urti e corrispondenze di significati ulteriori.

Così, è questo un racconto poetico denso che trova un sua musica sciolta nelle assonanze e sempre nella scelta attenta delle parole: c’è l’io che guarda la sua terra, il suo mondo, modulando coi versi un suo desiderio d’appartenenza ad esso, un volersi riconoscere nelle stesse immagini da lui cantate. La parola è dunque comprensione e ritrovo, attraverso la quale sentirsi a casa.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 15 Febbraio 2023

Tre poesie da Senza titolo. Sovversi di Mirko Boncaldo

con le punta di dita, rorida

come brina sulle sgretolate screpolature

vieni

e sobilli atavici sedimenti

di fiori sconosciuti e incandescenti

incredule ombre

che l’acqua non regna, lontana

che bagna:

   

suffragetta, partigiana, femme.

* * *

elevo: è vocazione

che dalla tua voce immane

scuote e in me permane

provocante consunzione

ascoltarti di nuovo

parlare nel silenzio pesto,

leggiadra invocazione,

ladra delle parole.

   

con te mi sperpero.

* * *

Disingannami, disilludimi, disincantami

e balla al ritmo delle primaverili premure

balla alle piogge estive, balla

all’inverno fregiarsi delle tue foglie

elegante sempreverde, balla.

* * *

Nelle poesie di Mirko Boncaldo, tratte dalla sua raccolta Senza Titolo. Sovversi (Transeuropa edizioni, 2022), il racconto poetico si costruisce su un continuo scambio a una sola voce tra l’io narrante e un tu sempre interpellato, cercato con foga ed evocato attraverso le parole. È solo l’io, infatti, che tra i due poli relazionali parla (e canta) e attraverso il suo affastellare termini e immagini da il ritmo dello scambio a due da lui stesso, appunto, costruito e sviluppato all’interno della pagina che lo accoglie. È un ritmo, quello di questa ricerca spasmodica dell’altro, del tu che sosta accanto eppure quasi sfugge ancora tra le dita, definito da un uso corposo di allitterazioni e assonanze: il canto che ne deriva è sì omogeneo ma anche irruento, fatto di pause spezzate del respiro alle quali seguono altre rincorse impastate nelle parole e nelle immagini dense che lo abitano.

Proprio attraverso questa alternanza tra forti concentrazioni di punteggiatura e pause sintattiche da un lato e da spazi distesi di parole che si rincorrono dall’altro l’io rende col canto la forza gravitazionale estrema, ruvida, del tu al quale si rivolge e che lo attira costantemente a sé. La parola, così, diventa celebrazione di un movimento magnetico che prelude ad un’unione a due, della quale il canto che la contiene si mostra come espressione musicale.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 3 Febbraio 2022

Tre poesie da Formulario per la presenza di Francesca Innocenzi

Città di acciottolati liquefatti nella pioggia

città di vento e sole

                               di voci e di campane

e uomini vendevano gli stracci per vestire

giocosamente il nulla

   

città di mimi e attori

                                 di manicomi e di ospedali

dove noi ci salutammo frodati di risposte

sul gradino di un portone infranto

* * *

Quando ci si chiede di te si pensa

che il dopo è un codice a barre sul nulla

agonie da camera di tarli legnosi

                                                     che si sfrangiano

e si smateriano come cenere in un’urna

momentaneamente riposta

da offrire in pasto a un cetaceo di pietra

nella marina verde oltre il cancello

(a mia madre)

* * *

Il tempo anelato istante eterno

Il tempo anelato istante eterno

è caduto come miele sul selciato

   

il tempo, profumo di pruneto

rifugio e scampo al tuo corpo voluto

   

la ferrea leggerezza che in te ho accarezzato

stasera serbo

                  scherzo di brezza su salice muto

* * *

Nelle poesie di Francesca Innocenzi, tratte dalla raccolta Formulario per la presenza (Edizioni Progetto Cultura, 2022), la narrazione poetica si innesta su immagini giocate nello spazio tra similitudine e metafora per poi procedere da esse e dipanarsi, parola dopo parola, nell’assenza quasi assoluta della punteggiatura. Qui il ritmo è comunque offerto e orchestrato dalla costruzione spesso sfranta dei versi, i quali visivamente sembrano slittare quasi gli uni sugli altri, mentre la melodia prosegue tra una presa di fiato e una pausa a mimare, così, la sequenza di immagini e ricordi che si articolano attraverso il tempo soggettivo dell’io che le narra.

È appunto il rapporto col tempo che man mano si delinea nel canto: un legame che sembra caratterizzato dalla sua stessa perdita e, dunque, abitato solo nel ricordo dell’io che rammemora ciò a cui manca una risposta e una corporeità da toccare nel suo presente narrante. Un corporeità sostituita dalla vividezza delle immagini a loro volta ricordate quasi ad ingannarne, tramite la parola, l’inconsistenza tra le proprie mani. È in questo spazio, tra assonanze e verbi allitteranti tra di loro, che fluisce così il canto che ricorda le cose, attendendone il riscatto.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 24 Gennaio 2023

Tre poesie da Granelli di speranza di Benedetto Ghielmi

Granelli di gioia

Malinconica mancanza

   

il cuore tiene desto

il desiderio

di rivivere l’attimo.

   

Sacra e insensata gioia.

* * *

Paesaggi aperti

Ecco!

   

Con un battito

di ciglia,

mi esplode

dinanzi

la meraviglia.

* * *

Venerdì santo

Roboanti

frastuoni

di questa umanità

sanguinolenta.

   

Silenzio.

   

Desidero aggrapparmi

ai fili della speranza.

   

Dio tace

ma per amore.

   

Il silenzio di Dio

è il nostro

silenzio.

   

Ingrassare

di parole vacue

per dissetarsi

dell’acqua

della verità.

   

Quante parole

può contenere

il silenzio?

   

Speranza,

amore,

viatico di vita.

   

Viole disadorne

del colore

della vita.

Dio tace

per donare

luce alle povertà

dell’essere umano.

   

Ridestandoci,

rimettiamoci

a macinare chilometri

sul sentiero

della vita.

   

I salici coccolano

le nostre

cicatrici.

   

Silenzio.

   

Risvegliamoci

passo dopo passo.

   

Silenzio.

   

Ridoniamo vigore

alle nostre anime

intirizzite

dal digiuno d’amore.

   

Silenzio.

   

Dio non dorme

di fianco

alle nostre

esistenze.

* * *

Nei suoi testi, tratti dalla raccolta Granelli di Speranza (Ensemble, 2022), Benedetto Ghielmi mostra di fare uso di una sintassi poetica che quasi “deflagra” e si espande al centro della pagina, lasciando tra i vari gruppi di versi vallate vuote col compito di colmare la distanza che li separa. Eppure, a questa parcellizzazione della strofa, del canto, corrisponde un crescendo costante del ritmo: ad ogni pausa, ogni frattura del verso la melodia di fondo riprende fiato per darsi nella battuta che segue al vuoto che la attende ogni volta con ansia.

Così, attraverso l’uso preponderante di ripetizioni e allitterazioni il ritmo diventa narrazione riconoscibile attraverso lo scorrere cadenzato delle parole: ad esse è affidato infatti il compito – attraverso immagini vivide e metafore che pongono di fronte agli occhi del lettore forme e visioni – di ricordare ora all’io ora ai suoi interlocutori ciò che giace all’interno del sé e attende solo di essere disvelato e rimembrato, scandendo ad alta voce le parole che lo definiscono per evocarselo, di nuovo, davanti. Il canto allora diventa invito a riaccorgersi di se stessi, ad abbracciare le cose e proseguire sul proprio sentiero.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 21 Dicembre 2022

Asfissiare la poesia – Lele Adani, ovvero dell’idolatria del superfluo

Immagine creata con Midjourney

Non voler attribuire al gioco del calcio, il football o – per usare un termine foneticamente più coinvolgente – fútbol quell’elemento poetico che gli è innato è un lusso che solo il letterato chiuso nella sua alta torre d’alabastro può, forse, permettersi. Anche di fronte al cambiamento radicale che questo sport ha subito (in negativo) in maniera vorticosa nell’ultimo decennio tra esagerazioni di mercato e un divismo spasmodico e incontrollato di giocatori, tecnici e quant’altro, rimane ancora il suo elemento corporeo, la performance atletica e tecnica che, nel momento preciso nel quale viene eseguita sul campo di gioco, esprime quella fusione tra corpo e mente, linguaggio e azione fisica che coinvolge emotivamente e poeticamente lo spettatore in maniera ineludibile. Questo non è un tentativo apologetico nei confronti del calcio (tutt’altro) ma prendere di petto la questione della sua innata poeticità è centrale per quello che andremo a dire successivamente. Per il letterato o meno profano del tema ci viene in aiuto Pasolini, che esprime il concetto con una certa chiarezza:

Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato. Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto. I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”; e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.[1]

Il giocatore sul campo da calcio riesce, dunque, ad articolare ed esprimere un vero e proprio linguaggio che lo spettatore riceve, incamera dentro di sé e comprende – più o meno – a suo modo e secondo il modo del calciatore stesso. Quello che avviene, in sostanza, quando si legge una poesia. E Pasolini, infatti, si spinge oltre: «Ci sono nel calcio dei momenti esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. […] Anche il “dribbling” è di per sé poetico»[2]. C’è, quindi, poesia nel calcio: una poesia che ha a che fare, probabilmente, proprio con quel momento di unità tra corpo e mente in una danza che attraverso le sue mosse, i suoi dribbling e colpi inaspettati svela agli occhi di chi li “legge”, li assorbe, un lato del mondo finora non preso tutto sommato in considerazione. Insomma, interviene durante la visione del fútbol nella sua veste poetica, più autentica, quello shifting continuo tra ispirazione e razionalizzazione a posteriori[3], quel momento di aggressività dei sentimenti aggrappata alla rete che si insacca seguita dalla lucida rielaborazione dell’atto appena concluso. Un rapimento estatico che, seppur in forme sportive differenti, afferrava anche Leopardi di fronte alle gesta del suo vincitore nel pallone, tanto da fargli rimembrare l’ebbrezza di una vita alla giornata, oltre la noia e infangata dentro i rischi di ogni giorno:

Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

beata allor che ne’ perigli avvolta,

se stessa obblia, nè delle putri e lente

ore il danno misura e il flutto ascolta;

beata allor che il piede

spinto al varco leteo, più grata riede.[4]

La comunanza tra calcio e poesia – nella sua forma linguistica a noi più conosciuta – nell’aprire momenti vitalistici assoluti in grado di afferrare le nostre corde più profonde è quindi stata notata più volte da chi, il poeta sulla carta, lo fa o lo ha fatto di mestiere. È, dunque, nell’osservare il gesto atletico e tecnico del giocatore che noi percepiamo il suo dire poetico, il suo tentativo (più o meno consapevole) di esprimere la sua visione delle cose al momento del tocco della palla che può colpire i nostri sensi e rimandarci a uno stato di connessione con quell’attimo, impastando insieme corpo e psiche.


È proprio qui che interviene, a fare da intermediario fisico e non (come la carta tra poeta e lettore), il telecronista con la sua narrazione. Già, perché nell’epoca della fruizione audio televisiva del gioco del calcio avviene quella curiosa forma di aggiunta narrativa che è la telecronaca sportiva. Spesso, come il filologo dietro un’edizione di successo, dato per scontato e mai analizzato del tutto, il telecronista assume il ruolo fondamentale di narratore del gesto poetico che lo spettatore testimonia assieme a lui: in altre parole, aggiunge al linguaggio fisico – ripensiamo a Pasolini – del calciatore il linguaggio verbale vero e proprio per parafrasare (tentando di mantenere il più possibile il nocciolo poetico al suo interno) l’atto sportivo trasmesso dallo schermo agli occhi del telespettatore. L’onere del buon telecronista è, dunque, cosa non da poco: cercare di camminare parallelamente all’evento che osserva e rendere a parole ciò che esso rappresenta in sé stesso. A seconda del tipo di telecronista che si trova dietro ai microfoni potremmo avere, nel peggiore dei casi, una mera parafrasi molto prosastica e molto poco poetica di quello che vediamo o, nel migliore, una fusione quasi totale del linguaggio verbale del telecronista con quello fisico del giocatore sul campo da calcio tra emotività pura e abilità discorsiva sopraffine: è lì la poesia doppia, curiosamente e indescrivibilmente, sé stessa e lo spettatore non può che beneficiarne. Il telecronista è dunque il narratore aggiunto che, a seconda dei casi, può scegliere di essere mero traduttore del gesto tecnico o suo cantore posseduto come un rapsoda: in genere la maggior parte della telecronaca staziona in una sorta di via di mezzo ad oggi, tra tanti urlatori e pochi narratori o semplici accompagnatori delle azioni.

Qui si inserisce con prepotenza Lele Adani, rapsoda autoeletto in questi campionati mondiali di Qatar 2022 del fútbol dell’albiceleste e, neanche a dirlo, del suo uomo par excellence all’ultimo grande palcoscenico internazionale: Lionel Messi. La telecronaca di Adani, in questo senso, aspira ad essere un vero e proprio, instancabile e fedelissimo proemio ad ogni azione della Pulga e dei suoi compagni, conscio più di ogni altro della poesia innata nei piedi del fuoriclasse argentino. Tuttavia, è proprio questa incontenibile necessità di raccontare al mondo la grandezza della poesia del calcio argentino – ancora Pasolini affermava che «Il calcio in poesia è quello del calcio latinoamericano»[5] – che lo porta a un inevitabile quanto grottesco fallimento, una dissonanza stridente nel pieno del canto degli aedi latinoamericani sul campo. Adani si ingobbisce sul microfono, grida con la voce forzatamente spezzata ad ogni singola giocata del suo idolo gettando fuori frasi voluminose e contorte, luculliane, ai limiti del gioco linguistico fine a se stesso, tra slalom tra i cammelli del deserto e il riannodare i fili del proprio destino fino a Rosario. Al suo fianco un posato e sempre più sconfortato Bizzotto, partita dopo partita, che lentamente si arrende alle incursioni del suo infervorato compagno di microfono, riuscendo a comunicare col suo silenzio allo spettatore una sorta di compassionevole invito alla comprensione della situazione. In questi frangenti, personalmente, avverto il problema insito nel commento tecnico di Lele Adani: il suo non è un tentativo vero e proprio di accompagnare l’atto poetico nella sua controparte verbale fino all’orecchio del lettore/spetattore, quanto piuttosto un vuoto riverbero della sua ossessione per il poeta con il numero 10 sulle spalle. In altre parole, Adani non vuole realmente aggiungere con la sua voce poesia alla poesia che ama, tutt’altro: Adani aspira semmai ad essere la glossa erudita dei passi danteschi di Messi, salvo poi inevitabilmente fallire. Questo perché la sua glossa non si risolve nel commento tecnico, ma nell’esaltazione fintamente irrazionale, simulata da una passione certamente genuina ma distorta, del gesto atletico.

Qual è allora la conseguenza, inevitabile e grave per la poetica calcistica, della telecronaca di Adani? Quella, verrebbe da dire piuttosto schiettamente, di asfissiare la poesia del calcio, stringerla con foga tra le mani urlandole in faccia il proprio amore smodato, quasi a recitare la parte del glossatore e critico di fama internazionale dei versi albicelesti. Quella di Adani infatti finisce per essere non la glossa di un erudito della poetica calcistica: semmai, assomiglia di più alla frase esaltata al lato della pagina del commentatore improvvisato, che non coglie e non riesce a trasmettere agli altri la poesia del suo idolo – letterario e non – ma piuttosto nausea il lettore e lo porta quasi a detestare l’opera che ha di fronte. In tal senso, la telecronaca di Adani in questi mondiali che ci ha accompagnato e, con ogni probabilità, ci accompagnerà fino alla finalissima di domenica prossima, rappresenta al meglio ciò che non si deve fare quando si legge e si parla di poesia agli altri: l’esaltazione forzata, la ricerca del tecnicismo tanto cesellato quanto grottesco e senza senso da incastonare nella propria critica esposta agli sfortunati uditori intorno. I cammelli e i maradoneggiamenti di Adani finiscono così per creare una sorta di misticismo sterile che, ad ogni tocco di Messi, umiliano la poesia che traspare dagli strappi del fuoriclasse e la relegano all’angolo delle sue grida grottesche. Lele Adani, infatti – e chiudo – non fa nessuna delle due cose che un telecronista può scegliere di fare quando si siede davanti al microfono di uno stadio: né commenta il gesto poeticamente tecnico (o tecnicamente poetico) né – cosa ancora più rara nelle telecronache di oggi – narra al telespettatore ciò che accade e le storie che stanno dietro a quello che si svolge sul campo. Grida ansimante i suoi commenti al lato della pagina e la poesia appassisce, il canto diventa dissonanza. In questo senso l’adanismo è la perfetta autorappresentazione dell’idolatria del superfluo: nessuna narrazione, appunto, né reale descrizione tecnica ma solo il grido esasperato della pura e strabordante estetica fine a se stessa, che nelle immaginazioni di tuareg nel deserto inginocchiati ai piedi di Messi diventa impacciato caos linguistico barocco, voce strozzata di un (involontariamente falso) profeta invasato. Il fútbol rimane allora inquinato da quella tendenza, tutta contemporanea, della fascinazione per l’estetica antinarrativa che, ad esempio, trova nella serialità televisiva e nella cinematografia in genere la sua controparte nella ricerca del plot twist esagerato e voluminoso, della fotografia lussuriosa e della concentrazione spasmodica sull’unica performance della star al centro di tutto, lasciando alle spalle il resto: non c’è, appunto, narrazione e poetica ma solo il grido autocompiaciuto del regista e dei suoi collaboratori dietro la macchina da presa, come le sgroppate e gli sbuffi vocali del nostro telecronista-vate accanto al malcapitato Bizzotto.

Come vademecum per la finale e le prossime gesta calcistiche che avranno la sfortuna di essere accompagnate dall’asfissia antipoetica dell’adanismo, allora, teniamo a mente le parole di Rilke:

In verità, altro soffio è il canto: un soffio

nel nulla. Un alitare nel Dio. Un vento.[6]

   
  • Paolo Andrea Pasquetti, 15 Dicembre 2022

[1] Pier Paolo Pasolini, Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, Il Giorno, 3 gennaio 1971.

[2] Ivi.

[3] E torniamo, come abbiamo già fatto più volte qui su Radura Poetica, ad Owen Barfield, Poetic Diction, A Study in Meaning, Faber & Gwyer Limited, London, 1928. pp. 105-7.

[4] Giacomo Leopardi, A un vincitore nel pallone, in Canti, Bur Rizzoli e Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018, vv. 60-5.

[5] P. P. Pasolini, Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori.

[6] Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo, I 3, traduzione di R. S. Virgillito, Garzanti, 2019, vv. 12-4.