Asfissiare la poesia – Lele Adani, ovvero dell’idolatria del superfluo

Immagine creata con Midjourney

Non voler attribuire al gioco del calcio, il football o – per usare un termine foneticamente più coinvolgente – fútbol quell’elemento poetico che gli è innato è un lusso che solo il letterato chiuso nella sua alta torre d’alabastro può, forse, permettersi. Anche di fronte al cambiamento radicale che questo sport ha subito (in negativo) in maniera vorticosa nell’ultimo decennio tra esagerazioni di mercato e un divismo spasmodico e incontrollato di giocatori, tecnici e quant’altro, rimane ancora il suo elemento corporeo, la performance atletica e tecnica che, nel momento preciso nel quale viene eseguita sul campo di gioco, esprime quella fusione tra corpo e mente, linguaggio e azione fisica che coinvolge emotivamente e poeticamente lo spettatore in maniera ineludibile. Questo non è un tentativo apologetico nei confronti del calcio (tutt’altro) ma prendere di petto la questione della sua innata poeticità è centrale per quello che andremo a dire successivamente. Per il letterato o meno profano del tema ci viene in aiuto Pasolini, che esprime il concetto con una certa chiarezza:

Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato. Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto. I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”; e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.[1]

Il giocatore sul campo da calcio riesce, dunque, ad articolare ed esprimere un vero e proprio linguaggio che lo spettatore riceve, incamera dentro di sé e comprende – più o meno – a suo modo e secondo il modo del calciatore stesso. Quello che avviene, in sostanza, quando si legge una poesia. E Pasolini, infatti, si spinge oltre: «Ci sono nel calcio dei momenti esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. […] Anche il “dribbling” è di per sé poetico»[2]. C’è, quindi, poesia nel calcio: una poesia che ha a che fare, probabilmente, proprio con quel momento di unità tra corpo e mente in una danza che attraverso le sue mosse, i suoi dribbling e colpi inaspettati svela agli occhi di chi li “legge”, li assorbe, un lato del mondo finora non preso tutto sommato in considerazione. Insomma, interviene durante la visione del fútbol nella sua veste poetica, più autentica, quello shifting continuo tra ispirazione e razionalizzazione a posteriori[3], quel momento di aggressività dei sentimenti aggrappata alla rete che si insacca seguita dalla lucida rielaborazione dell’atto appena concluso. Un rapimento estatico che, seppur in forme sportive differenti, afferrava anche Leopardi di fronte alle gesta del suo vincitore nel pallone, tanto da fargli rimembrare l’ebbrezza di una vita alla giornata, oltre la noia e infangata dentro i rischi di ogni giorno:

Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

beata allor che ne’ perigli avvolta,

se stessa obblia, nè delle putri e lente

ore il danno misura e il flutto ascolta;

beata allor che il piede

spinto al varco leteo, più grata riede.[4]

La comunanza tra calcio e poesia – nella sua forma linguistica a noi più conosciuta – nell’aprire momenti vitalistici assoluti in grado di afferrare le nostre corde più profonde è quindi stata notata più volte da chi, il poeta sulla carta, lo fa o lo ha fatto di mestiere. È, dunque, nell’osservare il gesto atletico e tecnico del giocatore che noi percepiamo il suo dire poetico, il suo tentativo (più o meno consapevole) di esprimere la sua visione delle cose al momento del tocco della palla che può colpire i nostri sensi e rimandarci a uno stato di connessione con quell’attimo, impastando insieme corpo e psiche.


È proprio qui che interviene, a fare da intermediario fisico e non (come la carta tra poeta e lettore), il telecronista con la sua narrazione. Già, perché nell’epoca della fruizione audio televisiva del gioco del calcio avviene quella curiosa forma di aggiunta narrativa che è la telecronaca sportiva. Spesso, come il filologo dietro un’edizione di successo, dato per scontato e mai analizzato del tutto, il telecronista assume il ruolo fondamentale di narratore del gesto poetico che lo spettatore testimonia assieme a lui: in altre parole, aggiunge al linguaggio fisico – ripensiamo a Pasolini – del calciatore il linguaggio verbale vero e proprio per parafrasare (tentando di mantenere il più possibile il nocciolo poetico al suo interno) l’atto sportivo trasmesso dallo schermo agli occhi del telespettatore. L’onere del buon telecronista è, dunque, cosa non da poco: cercare di camminare parallelamente all’evento che osserva e rendere a parole ciò che esso rappresenta in sé stesso. A seconda del tipo di telecronista che si trova dietro ai microfoni potremmo avere, nel peggiore dei casi, una mera parafrasi molto prosastica e molto poco poetica di quello che vediamo o, nel migliore, una fusione quasi totale del linguaggio verbale del telecronista con quello fisico del giocatore sul campo da calcio tra emotività pura e abilità discorsiva sopraffine: è lì la poesia doppia, curiosamente e indescrivibilmente, sé stessa e lo spettatore non può che beneficiarne. Il telecronista è dunque il narratore aggiunto che, a seconda dei casi, può scegliere di essere mero traduttore del gesto tecnico o suo cantore posseduto come un rapsoda: in genere la maggior parte della telecronaca staziona in una sorta di via di mezzo ad oggi, tra tanti urlatori e pochi narratori o semplici accompagnatori delle azioni.

Qui si inserisce con prepotenza Lele Adani, rapsoda autoeletto in questi campionati mondiali di Qatar 2022 del fútbol dell’albiceleste e, neanche a dirlo, del suo uomo par excellence all’ultimo grande palcoscenico internazionale: Lionel Messi. La telecronaca di Adani, in questo senso, aspira ad essere un vero e proprio, instancabile e fedelissimo proemio ad ogni azione della Pulga e dei suoi compagni, conscio più di ogni altro della poesia innata nei piedi del fuoriclasse argentino. Tuttavia, è proprio questa incontenibile necessità di raccontare al mondo la grandezza della poesia del calcio argentino – ancora Pasolini affermava che «Il calcio in poesia è quello del calcio latinoamericano»[5] – che lo porta a un inevitabile quanto grottesco fallimento, una dissonanza stridente nel pieno del canto degli aedi latinoamericani sul campo. Adani si ingobbisce sul microfono, grida con la voce forzatamente spezzata ad ogni singola giocata del suo idolo gettando fuori frasi voluminose e contorte, luculliane, ai limiti del gioco linguistico fine a se stesso, tra slalom tra i cammelli del deserto e il riannodare i fili del proprio destino fino a Rosario. Al suo fianco un posato e sempre più sconfortato Bizzotto, partita dopo partita, che lentamente si arrende alle incursioni del suo infervorato compagno di microfono, riuscendo a comunicare col suo silenzio allo spettatore una sorta di compassionevole invito alla comprensione della situazione. In questi frangenti, personalmente, avverto il problema insito nel commento tecnico di Lele Adani: il suo non è un tentativo vero e proprio di accompagnare l’atto poetico nella sua controparte verbale fino all’orecchio del lettore/spetattore, quanto piuttosto un vuoto riverbero della sua ossessione per il poeta con il numero 10 sulle spalle. In altre parole, Adani non vuole realmente aggiungere con la sua voce poesia alla poesia che ama, tutt’altro: Adani aspira semmai ad essere la glossa erudita dei passi danteschi di Messi, salvo poi inevitabilmente fallire. Questo perché la sua glossa non si risolve nel commento tecnico, ma nell’esaltazione fintamente irrazionale, simulata da una passione certamente genuina ma distorta, del gesto atletico.

Qual è allora la conseguenza, inevitabile e grave per la poetica calcistica, della telecronaca di Adani? Quella, verrebbe da dire piuttosto schiettamente, di asfissiare la poesia del calcio, stringerla con foga tra le mani urlandole in faccia il proprio amore smodato, quasi a recitare la parte del glossatore e critico di fama internazionale dei versi albicelesti. Quella di Adani infatti finisce per essere non la glossa di un erudito della poetica calcistica: semmai, assomiglia di più alla frase esaltata al lato della pagina del commentatore improvvisato, che non coglie e non riesce a trasmettere agli altri la poesia del suo idolo – letterario e non – ma piuttosto nausea il lettore e lo porta quasi a detestare l’opera che ha di fronte. In tal senso, la telecronaca di Adani in questi mondiali che ci ha accompagnato e, con ogni probabilità, ci accompagnerà fino alla finalissima di domenica prossima, rappresenta al meglio ciò che non si deve fare quando si legge e si parla di poesia agli altri: l’esaltazione forzata, la ricerca del tecnicismo tanto cesellato quanto grottesco e senza senso da incastonare nella propria critica esposta agli sfortunati uditori intorno. I cammelli e i maradoneggiamenti di Adani finiscono così per creare una sorta di misticismo sterile che, ad ogni tocco di Messi, umiliano la poesia che traspare dagli strappi del fuoriclasse e la relegano all’angolo delle sue grida grottesche. Lele Adani, infatti – e chiudo – non fa nessuna delle due cose che un telecronista può scegliere di fare quando si siede davanti al microfono di uno stadio: né commenta il gesto poeticamente tecnico (o tecnicamente poetico) né – cosa ancora più rara nelle telecronache di oggi – narra al telespettatore ciò che accade e le storie che stanno dietro a quello che si svolge sul campo. Grida ansimante i suoi commenti al lato della pagina e la poesia appassisce, il canto diventa dissonanza. In questo senso l’adanismo è la perfetta autorappresentazione dell’idolatria del superfluo: nessuna narrazione, appunto, né reale descrizione tecnica ma solo il grido esasperato della pura e strabordante estetica fine a se stessa, che nelle immaginazioni di tuareg nel deserto inginocchiati ai piedi di Messi diventa impacciato caos linguistico barocco, voce strozzata di un (involontariamente falso) profeta invasato. Il fútbol rimane allora inquinato da quella tendenza, tutta contemporanea, della fascinazione per l’estetica antinarrativa che, ad esempio, trova nella serialità televisiva e nella cinematografia in genere la sua controparte nella ricerca del plot twist esagerato e voluminoso, della fotografia lussuriosa e della concentrazione spasmodica sull’unica performance della star al centro di tutto, lasciando alle spalle il resto: non c’è, appunto, narrazione e poetica ma solo il grido autocompiaciuto del regista e dei suoi collaboratori dietro la macchina da presa, come le sgroppate e gli sbuffi vocali del nostro telecronista-vate accanto al malcapitato Bizzotto.

Come vademecum per la finale e le prossime gesta calcistiche che avranno la sfortuna di essere accompagnate dall’asfissia antipoetica dell’adanismo, allora, teniamo a mente le parole di Rilke:

In verità, altro soffio è il canto: un soffio

nel nulla. Un alitare nel Dio. Un vento.[6]

   
  • Paolo Andrea Pasquetti, 15 Dicembre 2022

[1] Pier Paolo Pasolini, Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, Il Giorno, 3 gennaio 1971.

[2] Ivi.

[3] E torniamo, come abbiamo già fatto più volte qui su Radura Poetica, ad Owen Barfield, Poetic Diction, A Study in Meaning, Faber & Gwyer Limited, London, 1928. pp. 105-7.

[4] Giacomo Leopardi, A un vincitore nel pallone, in Canti, Bur Rizzoli e Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018, vv. 60-5.

[5] P. P. Pasolini, Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori.

[6] Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo, I 3, traduzione di R. S. Virgillito, Garzanti, 2019, vv. 12-4.

Leopardi e l’universo – Una prospettiva poetica sulle immagini del telescopio Webb

Se effettivamente le immagini dell’universo all’interno del quale ci troviamo catturate dal telescopio James Webb e pubblicate qualche settimana fa hanno suscitato in noi qualche effetto, di certo quell’effetto stesso non riguarda solamente l’entusiasmo e il plauso per una meta scientifica raggiunta, quanto piuttosto ha a che fare con la percezione di umanità che portiamo dentro e che viene plasmata dalla consapevolezza evocata ogni volta da immagini simili. Una caratteristica che da sempre contraddistingue noi umani su questa terra è, in effetti, quella spinta – che definirei poetica oltre e prima che scientifica – di puntare il naso all’insù e fissare lo sguardo in quella infinità di astri sopra la nostra testa chiedendoci cosa sono loro ma, soprattutto, cosa e dove siamo noi rispetto a loro. Personalmente, nel momento in cui ho visto le immagini dell’universo con le sue nebulose e galassie il mio pensiero è andato subito a chi, dello sguardo all’insù verso le stelle, ne ha fatto uno dei principali motori della sua poesia. Riprendo in mano i Canti di Giacomo Leopardi e scorrendo velocemente il Canto Notturno mi imbatto nel pastore che, seduto ad ammirare la luna sua interlocutrice silenziosa ed il cielo, canta:

   

[…] E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono? […] [1]

   

Ecco, non posso negare che le parole di Giacomo risuonano con una forza incredibile e, potremmo dire, senza tempo, accompagnandole alle immagini di quelle infinte galassie, stelle, soli e così a proseguire che si aprono in questi giorni di fronte ai nostri occhi. Forse perché Leopardi, nella sua da sempre chiarissima percezione dell’essenzialità delle cose dell’esistenza (un tema che sicuramente riprenderemo qui sulla Radura) aveva colto quel legame ontologico che lega l’essere umano all’universo di cui fa parte e agli astri che del secondo rappresentato il disegno poetico che viene colto dalla percezione del primo, ogni volta che esso alza lo sguardo sopra di sé. E questo legame ha a che fare, probabilmente, con quel senso di meraviglia abissale al quale segue un domandare titubante ma indispensabile, insopprimibile nell’animo: domandare per cercare di comprendere la natura di quel disegno spaziale, nella speranza che proprio in quelle lontane costellazioni di senso si nasconda la risposta sulla natura dell’uomo stesso che domanda («[…] dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?» [2]). Leopardi ci mostra così, con la semplicità essenziale della sua poesia, come il nostro rapporto con l’universo, il cosmo, sia sempre stato orientato inevitabilmente dal tentativo di capirci meglio, comprendere il nostro posto nel mondo e, soprattutto, le esperienze spesso dolorose che lo caratterizzano. Così per il pastore del Canto notturno la luna diventa l’astro più vicino di quel disegno profondo e ammaliante a cui poter chiedere incerto:

   

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir della terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia. [3]

   

L’uomo in qualche modo capisce di essere parte di quel disegno che osserva e, allora, cerca di leggere al meglio i dettagli che può cogliere ad occhio nudo (o con i propri mezzi tecnologici) per orientarsi in quella mappa cosmica e, di conseguenza, riorientare ogni volta la propria posizione non solo geografica, spaziale, ma ontologica all’interno di quel disegno stesso.


Tuttavia, è proprio in questo atteggiamento profondamente poetico, oltre che scientifico, che Leopardi scorge una possibile (poi storicamente realizzatasi quasi sin da subito) pericolosa china da percorrere che può portare l’uomo a credere, egoisticamente e scioccamente, di essere di diritto al centro di quel disegno cosmico, nonché anche il fulcro del suo senso. Il poeta di Recanati nella Ginestra si scaglia con veemenza e una certa dose di buon gusto ironico verso la maggior parte degli uomini del suo tempo – ma la critica potrebbe tranquillamente valere per i nostri giorni – che credono follemente che l’universo tutto sia stato fatto e ordinato ad uso e costume dell’uomo:

   

[…] Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio

Che sembri allora, o prole

Dell’uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

Per tua cagion, dell’universe cose

Scender gli autori […] [4]

   

L’uomo, insomma, ha finito velocemente per credere di essere la ragione stessa insita nel disegno che osserva sopra la propria testa: ha smesso di domandare poeticamente spaesato per, al contrario, definire in modo certo e inossidabile verità antropocentriche, compiacendosi di una certa prassi scientifica. Leopardi dedica al problema dell’antropocentrismo rispetto all’universo buona parte della sua opera, forse perché capisce che non si tratta semplicemente di un atteggiamento accademico poco simpatico e incline alla conversazione, quanto piuttosto di una postura esistenziale che rischia di deviare (e puntualmente lo fa) terribilmente l’uomo dal rapporto reale che lo lega al mondo e, in questo caso specifico, ai mondi fuori dal suo. Così nelle Operette Morali Giacomo punzecchia spessissimo con profonda e geniale ironia la credenza oramai sempre più in voga tra gli uomini moderni di essere il centro di ogni cosa. Non a caso, ad esempio, riprende proprio la figura della luna che, dialogando con la terra, stavolta parla e risponde divertita al globo terrestre che pensa convintamente che i fenomeni naturali etc. che accadono su di lei siano esattamente gli stessi anche sul suo più piccolo satellite: «Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto» [5]. L’essere umano si è convinto allora che la natura stessa, in tutte le sue forme e realizzazioni, graviti intorno al suo stato, alle sue conoscenze etc. in particolare quelle scientifiche, delle quali sempre più gli uomini vanno fieri attraverso un uso esclusivamente tecnico e centrato solo su loro stessi. E proprio sulla distorsione della scienza che, in qualche modo, ha determinato questo sfasamento tra l’uomo e il disegno dell’universo che ora osserva e analizza freddamente e con un malcelato orgoglio autistico attraverso lenti sempre più potenti dei suoi cannocchiali, Leopardi si sofferma in un altro dialogo delle Operette, immaginando che un folletto e uno gnomo discorrano amabilmente a proposito della scomparsa dell’uomo sulla terra. Ecco, infatti, uno dei due sorridere in questo modo delle manie di grandezza dell’ormai estinta stirpe umana e delle sue grandi tecnologie:

   

Parimente di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie; perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende. [6]

   

E, subito dopo, ratifica con un’ultima smorfia divertita l’assoluta inconsistenza delle manie di grandezza dell’uomo di fronte all’immensità dell’universo: «E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie» [7]. L’altra faccia della medaglia nel voler essere i padroni – completamente centrati sul proprio ego umano – della geografia del cosmo, sembra suggerirci Leopardi, sta nell’inevitabile fatto di ritrovarsi prima o poi soverchiati dall’immensità impossibile da comprendere dentro le nostre carte, i nostri calcoli etc. dell’universo stesso salvo per poi scoprire, in aggiunta, di essere assolutamente irrilevanti al suo interno; un minuscolo granello che ancora cerca di orientarsi come l’umile poeta dell’inizio: solo che, in questo caso, lo scienziato orgoglioso farà esperienza più traumaticamente di una simile consapevolezza della natura delle cose attorno a lui. È, questo, proprio lo sguardo accorato e le parole preoccupate di Copernico al Sole, sempre nelle Operette, di fronte alla scoperta dell’eliocentrismo e delle conseguenze esistenziali che potrebbe avere sull’intera specie umana:

   

Considerate, illustrissimo, quel ch’è ragionevole che avvenga degli altri pianeti. Che quando vedranno la terra fare ogni cosa che fanno essi, e divenuta uno di loro, non vorranno più restarsene così lisci, semplici e disadorni, così deserti e tristi, come sono stati sempre; e che la Terra sola abbia quei tanti ornamenti: ma vorranno ancora essi i lor fiumi, i lor mari, le loro montagne, le piante, e fra le altre cose i loro animali e abitatori; non vedendo ragione alcuna di dovere essere da meno della Terra in nessuna parte. Ed eccovi un altro rivolgimento grandissimo nel mondo; e una infinità di famiglie e di popolazioni nuove, che in un momento si vedranno venir su da tutte le bande, come funghi. [8]

   

E nella risposta tagliente del Sole («E tu le lascerai che vengano […]» [9]) possiamo scorgere l’imbarazzo e il senso di vuoto assoluto che avvolge Copernico, rappresentate dell’animo puramente scientifico dell’uomo e di tutti quelli che, come lui, credevano di poter orientare l’universo verso di sé grazie alle proprie abilità tecniche. Nessun orientamento, ci dice Giacomo, piuttosto uno spaesamento ancora più abissale che rischia di far precipitate anche la mente più fieramente e orgogliosamente oggettiva nel buio più nero dello spazio (non solo esteriore, ma soprattutto interiore [10]). Di fronte all’uomo che pensa di essere «[…] un imperatore dell’universo; un imperatore del sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale delle stelle, dei pianeti […] e di tutte le cose» [11] l’universo risponde con la sua semplice ma ineludibile presenza, la sua infinita estensione che, una vola scoperta dei cannocchiali dell’uomo, getta chi li adopera di fronte alla propria inconsistenza rispetto all’immensità del cosmo stesso.


Se il nostro sguardo allora si affina sempre di più e, tuttavia, ci fa sentire sempre più piccoli e sperduti tra le nebulose e i quasar proiettati delle immagini sempre più avanzate che possediamo, come possiamo risolvere questo cortocircuito esistenziale tra spinta esplorativa e il disagio dispersivo che, spesso, ne consegue? Torniamo un’ultima volta, insieme a Giacomo, da dove abbiamo cominciato questo ragionamento, ovvero alla sua luna. Verso la fine del suo canto, il pastore rivolge queste parole al disco biancastro sopra di sé:

   

Forse s’avess’io l’ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna. [12]

   

Il pastore, che abbiamo visto rappresentare quello sguardo maggiormente poetico verso il disegno dell’universo che a stento riesce a scorgere, sembra esprimere qui una sorta di umile e timorosa felicità – ma tuttavia tale – di fronte alla consapevolezza del suo esistere all’interno di un ordine di cose così infinitamente più grande e impossibile da comprendere del tutto. In altre parole, la proposta che mi sento di fare da queste letture di Leopardi è quella di recuperare una prospettiva poetica di fronte all’esplorazione del cosmo che oggi sempre più è lanciata in avanti: i nostri strumenti tecnologici sono straordinari e ci permettono di osservare corpi celesti che mai prima d’ora avremmo potuto sperare di scorgere. In questo senso, allora, cerchiamo di legare all’osservazione tecnicamente straordinaria e lodevole delle immagini di un qualsiasi telescopio Webb l’emozione – poetica e, quindi, fortemente umana – di sentirci parte, certamente piccola, ma pur sempre una parte di quel disegno così profondo e affascinante. Ancora Leopardi, ancora con la luna e la terra che discutono tra di loro, ci offre forse la prospettiva poetica più bella di questo sentirsi parte dell’universo, senza però pensare di esserne il centro:

   

Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?

Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.

Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo.

Luna. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda. [13]

   

Come i due astri che parlano sopra anche noi forse siamo parte di una musica cosmica della quale spesso, a volte per lontananza da una simile prospettiva e assorbiti da noi stessi, altre per semplice noncuranza, non siamo coscienti. Se esiste un rapporto più vivo e stretto tra l’uomo e la natura e, in questo caso, l’universo stesso, le immagini di quest’ultimo al contrario di farci sentire solamente sperduti possono invece ricordarci di essere una «corda», appunto, di quello spartito che si distende tra una stella e l’altra di fronte ai nostri occhi. Sta a noi, sembra dirci Leopardi con la sua poesia, sederci di fronte a quel disegno nel cielo e, osservandolo più o meno attentamente, sentirsene parte e provare – nonostante l’inevitabile senso di dispersione iniziale – una certa e timida felicità di essere consapevoli della nostra esistenza al suo interno. La poesia, in questo senso, ancora una volta svela la natura delle cose di fronte allo sguardo di chi ne fa uso e, in questo caso specifico, anche il legame di cui quest’ultimo è parte con esse, cosciente o meno: ogni volta che osserviamo cosa esiste sopra le nostre teste non dimentichiamolo perché potrebbe indicarci meglio il nostro posto nel mondo e, di nuovo, tra i mondi verso i quali guardiamo sempre più spesso.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 4 Agosto 2022

[1] Giacomo Leopardi, Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia, in Canti, Bur Rizzoli e Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018, vv. 84-9.

[2] Ivi, vv. 18-20.

[3] Ivi, vv. 61-68.

[4] G. Leopardi, La ginestra, in Canti, vv. 180-93.

[5] G. Leopardi, Dialogo della Terra e della Luna, in Operette Morali, Rizzoli libri S.pA., 2016, pp. 197-8.

[6] G. Leopardi, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, in Operette Morali, p. 162.

[7] Ibidem.

[8] G. Leopardi, Il Copernico. Dialogo, in Operette Morali, pp. 532-3.

[9] Ibidem.

[10] «Perché chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo […]» G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Letteratura italiana Einaudi in Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze, 1921, pp. 137-8.

[11] G. Leopardi, Il Copernico. Dialogo, pp. 530-1.

[12] G. Leopardi, Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 133-8.

[13] G. Leopardi, Dialogo della Terra e della Luna, pp. 194-5.

Dino Campana e il tentativo di una poesia

La poesia che si respira nei Canti Orfici di Dino Campana è difficile, a tratti volutamente chiusa a chi tenti di avvicinarsi ad essa per comprenderla, provocandone l’allontanamento quasi intontito e con una punta di risentimento verso di lei. Provare a parlare di un’opera del genere, quindi, non è meno complicato perché – come per ogni scrittura abbastanza forte e gravida di pensiero da lasciare il segno – dà spazio a differenti e a volte opposte chiavi di lettura. Gradi di interpretazione che, inevitabilmente in ogni approccio critico, si differenziano a seconda dell’impronta di comprensione che ognuno di noi apporta all’opera sotto esame e da cui non è mai del tutto possibile separarsi: lo stampo in qualche modo della nostra specifica comprensione si imprime più o meno fortemente sull’impasto del testo che abbiamo di fronte, sui suoi concetti e sulle sue parole. Esercitarsi a imprimere meno forza possibile a un’opera è sicuramente utile, ma aprirebbe una discussione nella discussione che forse è meglio rimandare ad un ragionamento interamente dedicato al tema. Tornando a Campana, dunque, per conto di chi scrive la premessa è che di fronte a un testo dalle moltissime sfaccettature alcune sono quelle che, a mio avviso, risuonano più forti e inducono a una riflessione interessante.

Dicevamo all’inizio della complessità dei Canti Orfici, un testo che fa la spola tra prosa poetica e componimenti veri e propri, disegnando un cammino interiore e allo stesso tempo esteriore dell’io narrante che si snoda tra visioni allucinate e silenzi assordanti: dai cammini estatici nei passi di montagna alla dispersione tra i vicoli bui e popolati da demoni fin troppo umani di Firenze, Bologna e altre città narrate da Campana. La cosa che, forse, rimane più nella mente dopo aver letto interamente l’opera è la percezione di trovarsi di fronte a un tentativo rimasto in un certo grado incompiuto di dire una nuova poesia, una nuova musica da comunicare al mondo. Questo svilisce l’opera di Campana in sé? Tutt’altro, la rende ancor più interessante e carica di riflessioni proprio per il suo carattere di incompiutezza intrinseca. Incompiuto che traspare nonostante ci troviamo di fronte ad un’opera oggettivamente fatta e finita, che possiede un inizio ed una fine: eppure una volta sfogliata l’ultima pagina dei Canti resta in qualche modo quella sensazione di sottile irrealizzazione, di una misura non pienamente colma che fa durare l’inquietudine che traspare sin dalla prima riga. In che senso, dunque, l’opera di Campana può considerarsi incompiuta? Quali sono i significati legati a questa incompiutezza di fondo?

La poesia dei Canti Orfici è non finita, si potrebbe dire, tematicamente più che formalmente, data la struttura completa del libro che la raccoglie. Ce ne accorgiamo semplicemente per il fatto che Campana, come ogni poeta consapevole del suo ruolo nel mondo, a partire dalle prime pagine del suo lavoro esprime chiaramente come il suo sia un tentativo radicalmente profondo di andare verso una nuova poesia, di dire di più sul mondo ma accompagnato dalla consapevolezza di una sostanziale irraggiungibilità del tentativo stesso: «Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?»[1]. In un certo senso l’io che si appresta a scovare la fonte della nuova poesia sente sin dal principio su di sé come quella ricerca sia destinata a mancare sempre di una parte. Più il poeta si affretta sulla via verso la meta, più rimane e si allunga quella – a volte – pur minima distanza da essa finendo tra le ombre di uno spazio eterno: solo la nostalgia resta come simulacro del tentativo ogni volta fallito e frustrato per ogni sua riproposizione nel tempo e nello spazio della scrittura e dell’esperienza della stessa. A questo riguardo, le parole che Arthur Rimbaud spende a proposito della ricerca che il poeta intraprende sembrano assai allineate a quella che Campana affronta di per sé nei suoi Canti: secondo il ragazzo di Charleville, il poeta «[…] giunge all’ignoto, e quando anche, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà comunque pur viste! Che crepi pure balzando attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori, e rincominceranno dagli orizzonti in cui l’altro s’è schiantato!»[2].

Sotto questo punto di vista, allora, la difficoltà e l’inadempienza del tentativo poetico di Campana sono dall’altra parte della medaglia la riprova del valore, della necessità della sua ardua via: se il poeta, come Rimbaud, ha il compito di aprire nuovi spazi con il suo dire, di mostrare cose fino ad allora rimaste sotto lo specchio opaco della vista quotidiana degli uomini il suo fallimento, l’interruzione brusca del suo sentiero diventa allo stesso tempo l’impronta che altri dopo di lui seguiranno, disvelando man mano quanto scorto da chi è venuto prima, proprio come il poeta di Marradi. Il suo “schianto” lascerà così aperta la via ad altri: «Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attonito la grazia simbolica e avventurosa di quella scena»[3].

In questo schianto o ponte teso e poi ritirato verso l’infinito la poesia che ne deriva cerca di trovare una sua forma nuova. Così leggendo i Canti l’impressione è che, laddove i componimenti in versi veri e propri stentino di più, tanto nella comunicazione delle visioni del loro autore quanto nella figura che tentano di assumere – sintomo, questo, di una nascita poetica in corso in qualche modo ancora di là da venire – siano proprio le parti in prosa quelle a spiccare maggiormente. È infatti nella prosa poetica dei Canti che il tentativo di Campana trova forme e parole avvolgenti, a volte brevi illuminazioni che riempiono il senso della ricerca tra un cratere e l’altro lasciato nell’ombra del percorso. Lo si capisce dall’importanza assoluta che sembra ricoprire, nella prosa, la dimensione sonora: musicalità della sintassi, ripetizioni, assonanze etc. in un’orchestra linguistica che trascina il lettore nel viaggio abissale dell’io che lo percorre e lo canta. Sequenze di immagini e suoni si delineano vorticosamente: «Sulle spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un balzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle selvagge nell’ombra»[4].

A che scopo questo vortice in cui l’io di Campana si getta rischiando uno schianto polveroso? Lo si è visto prima con Rimbaud e ne abbiamo parlato, in parte, con Barfield ed Heidegger a proposito del ruolo della poesia qualche articolo fa (https://radurapoetica.com/2021/11/16/la-poesia-disvela-le-cose-alludendo/): il poeta disvela le cose, le riporta a chi ancora non può vederle, rischiando il sacrificio della propria parola per inseguire una melodia cui accordarsi lentamente: «Io fisso tra le lance immobili degli abeti credendo a tratti vagare una nuova melodia selvaggia e pure triste […]»[5].

La poesia aspra e oscura di Campana nei suoi Canti Orfici ci spinge così a chiederci cosa essa lasci per noi oggi, a ormai quasi un secolo di distanza dalla sua scrittura. Sono proprio le dolcezze improvvise e repentine che si nascondono tra le sue righe a dirci come la ricerca debba in qualche modo procedere, palmo dopo palmo, trovando e poi accettando subito dopo di perdere un momento di unità e comprensione per poi ritrovarlo ogni volta che l’ombra sia passata alle nostre spalle. Il tentativo, anche quando si infrange nel buio, non va mai perduto ma lascia spiragli che mano a mano arricchiscono chi li segue e li trattiene dentro di sé: «E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito»[6].

  • Paolo Andrea Pasquetti, 21 Dicembre 2021

[1] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, Garzanti s.r.l., Milano, 2002, p. 18.

[2] Arthur Rimbaud, Il poeta è un ladro di fuoco. Le lettere del veggente, L’orma editore srl, Roma, 2013, p. 41.

[3] Dino Campana, Canti Orfici, p. 12.

[4] Ivi, p. 15.

[5] Ivi, p. 14.

[6] Ivi, p. 73.

Mariangela Gualtieri e il gesto amorevole della poesia

A leggere la poesia di Mariangela Gualtieri si ha quasi sempre l’impressione di aver a che fare, probabilmente, con qualcosa di vivido e ben definibile al tatto, una corporeità delle cose narrate che in qualche modo sentiamo di poter percepire sulle dita, anche dal filtro lontano della pagina scritta. Forse perché il racconto che spesso si ritrova nella sua poesia parte sempre dall’esplicazione estremamente efficace di un dolore che sta ruvido sotto la pelle e monta e rincara ogni volta la sua dose, uno «stare chiusi al sangue, non volare»[1] che tuttavia non rimane un grido fine a se stesso: questo perché, al contrario di quello che spesso si incontra in una narrativa (poetica o meno) del dolore, quest’ultimo trova dentro di sé per l’io che scrive e lo dice la sua ragione di vita:

Grazie di questo piangere

senza il quale sarei una cosa secca,

immota.[2]

Il dolore, dunque, è ciò che in realtà scuote un’esistenza che si scopre ancora capace di sentire le proprie emozioni, specialmente le più sofferte: eppure è proprio in questa sofferenza che infatti il sangue si scalda e torna a scorrere tra le vene, a pulsare sotto l’impulso delle ferite interne od esterne che premono sulla vita, riportandola a un ritmo che ancora le permette di battere. Per dirla con Leopardi, insomma, «Il nuovo dolore in tal caso è come il bottone di fuoco che restituisce qualche senso, qualche tratto di vita ai corpi istupiditi»[3], e questo da il senso di una poesia consapevole della sofferenza che racconta perché riesce a percepirne il fine vitalistico ad essa intrinseco.

In questo ordine di cose si situa nella poesia di Mariangela Gualtieri la natura che, con la sua presenza fortemente intrecciata alle parole e alle immagini, assume il ruolo di un luogo dove trovare ristoro, ascoltare umilmente e imparare quello che avviene nel mondo, quasi come una cura a lungo rimasta sopita tra le trame vegetali o marine che ritorna ogniqualvolta l’io si appresti umilmente a chinarsi di fronte ad esse: «Inquieta andavo all’abetaia a portare il mio solito peso, e dopo la salita furibonda, dentro un riposo di scaricatore che ha finito, coccolata dalle antiche cime, non ero più in quel grumo inquieto […]»[4].

Così la natura, lo scorrere della vita pulita nel mondo riappacifica un’umanità scossa dal dolore – positivo, nel suo essere una spinta ad avvicinarsi e ricongiungersi alla prima – in un’ottica quasi sapienziale, nel suo insegnamento stabile e duraturo («[…] e insegni una legge / disgiunta, e reciti il mantra del mondo»[5]). Questo sembra portare lentamente, con i tempi dei cicli naturali, a quella cura che la poesia accoglie e fa sua tra le parole che la dicono: un medicamento caratterizzato dall’amorevolezza dei gesti e delle immagini del prendersi cura di sé, ritrovando la vita:

[…] ode

un tutto incompreso che calma

si accuccia nel calmo e guarisce

guarisce d’un alto guarire

scompare nello scomparire

e resta in quel pane

accolta, raccolta – lì resta.[6]

La caratteristica di questo gesto amorevole della poesia, della sua cura, è il modo con cui viene narrata, raccontata con parole del corpo («si accuccia nel calmo»), immagini dure o dense da poter toccare, sentire, assaporare e odorare («e resta in quel pane»). Questo avvicina alla sofferenza ora ricomposta e risanata, la fa sentire propria e condivisa nel mondo: una sofferenza che, s’è visto, viene narrata da parole ugualmente corporali, fatte di cose corpose al tatto e agli altri sensi nell’atto di istituire un solco comune tra dolore e gesto della cura proprio in virtù del ruolo del primo come motore di innesco della ricerca della seconda. In questo avvolgimento narrativo e poetico la natura sembra fare da tramite per entrambi, donando a chi decide di ascoltare la sua lezione antica la consapevolezza dei due concetti e le parole con cui vengono esplicati. Essa infatti non solo insegna la cura ma, prima ancora, la coscienza del dolore che necessita in ultima istanza la prima:

Oggi sentiamo il suo carico dolce

che un poco ustiona e un po’ canta

indolora innamora

e asseconda la danza battente

di tutto il sangue.[7]

L’immagine della natura, del mondo nel suo scorrere pone di fronte all’io il suo doppio insegnamento doloroso e dolce («indolora innamora») che trova espressione nella poesia che lo racconta. Così dolore e amorevolezza della cura coincidono e la seconda alla fine abbraccia e comprende, giustificandolo, il primo in un gesto che accoglie e dice ciò che può durare.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 25 Novembre 2021

[1] M. Gualtieri, Senza polvere senza peso, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 2006, p. 7.

[2] Ivi, p. 13.

[3] G. Leopardi, Zibaldone, edizione di riferimento in Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze, 1921; versione e-book tratta dalla serie Letteratura italiana Einaudi, 2000, 2160-2161. Si veda anche a proposito F. D’Intino, La caduta e il ritorno – Cinque movimenti nell’immaginario romantico leopardiano, Quodlibet, Macerata, 2019.

[4] M. Gualtieri, Senza polvere senza peso, p. 36.

[5] Ivi, p. 16.

[6] Ivi, p. 15.

[7] Ivi, p. 37.

La poesia disvela le cose alludendo

Quando prendo in mano un libro di poesia o, più raramente, provo a scriverla, non lo faccio mai per un semplice piacere di lettura o scrittura. Questa affermazione potrebbe correre il rischio di investire il rapporto che uno ha con la poesia di una carica morale, quasi religiosa e zelante, la quale spesso tenta (e a volte lo ha fatto rendendo le cose sin troppo confuse) di insinuarsi nei ragionamenti attorno all’atto poetico. No, nessuno zelo religioso o missione didattica-morale: semplicemente l’attestazione di quello che la poesia inevitabilmente contiene in sé al di là di ogni discorso che non voglia attestarsi sulla sola superficie del tema.

La poesia, dunque, è inevitabilmente una cosa seria. Perché ha a che fare direttamente con noi e il modo in cui ci relazioniamo con il mondo e chi lo abita, assieme allo spazio che occupiamo di solito nel nostro vivere. La cosa potrebbe sembrare una tautologia ma nasconde dietro, a una discussione più approfondita, tematiche le quali spesso chi si occupa di poesia tarda a porsi o lo fa solo a metà. La poesia è una cosa seria, dicevamo. Spesso è anche difficile, e questo può spaventarci nell’avvicinarsi ad essa, a coltivare un rapporto con lei nonostante le asperità sul cammino ma possiamo tenere a mente come viatico fedele le parole di Rilke: «[…] è il difficile che ci è stato affidato, quasi ogni cosa seria è difficile, e tutto è serio»[1]. La poesia è seria perché, al contrario della letteratura in genere, non ammette finzioni retoriche o compromessi d’autore: se infatti da un lato l’atto della scrittura porta sempre con sé, inevitabilmente, una parte ineludibile di finzione, dall’altro la poesia (quella vera) si trova curiosamente ad attestarsi, quasi senza averlo mai chiesto o cercato, in una sfera della parola puramente essenziale nel suo dire le cose. Questo è, detto forse in modo non così essenziale come il tema trattato, il discrimine fondamentale che separa la poesia di netto da ogni altro tentativo di scrittura esistente. Il suo esempio e contrario più noto e significativo è il romanzo: nessuna opera all’interno del genere romanzo, nessuna storia raccontata attraverso la sua forma può svilupparsi, evolversi e trovare una sua narrazione definitiva senza venire a patti con un certo grado di finzione che l’autore è costretto in qualche modo ad immettere all’interno della stessa. Questo perché il romanzo, come altri generi e tentativi letterari, è un atto di scrittura a posteriori che ha a che fare strettamente con un piano razionale ben definito: dei suoi personaggi, delle loro story-lines, del modo in cui esse vengono raccontate e suddivise attraverso le pagine etc. C’è dunque un grado di rielaborazione retorica, di riempimento di spazi vuoti tra eventi e allusioni – anche nel caso esse fossero le più sincere e aderenti possibili alla vita del loro autore o di altri – che una struttura “opaca” come quella del romanzo richiede e non le si può sfuggire, mai. Inutile pensare all’immagine romantica di un Kerouac (che chi scrive qui ama profondamente) che stende sotto effetto rapsodico di benzedrina in tre settimane sul suo celebre rotolo On the road, calando al suo interno le sue avventure personali con Neal Cassady in lungo e in largo per l’America di fine anni ’40: anche in quel caso, anche a credere sul serio all’evento leggendario della punta di diamante della beat generation, sono intervenuti per Jack pseudonimi, rielaborazioni di ciò che aveva vissuto, invenzioni e finzioni tra una riga e l’altra per completare la forma del romanzo che lo avrebbe consacrato alla fama letteraria mondiale: la differenza tra i suoi primi romanzi giovanili e questo (e i successivi) sta semmai nello stile che racconta una storia che è comunque frutto di un compromesso letterario e retorico, non nel liberarsi (completamente) di quel compromesso.

La poesia invece evita e salta per sua natura il compromesso che sembra legato ontologicamente alla natura della letteratura. Questo perché la difficoltà ossimorica della poesia, alla nostra comprensione spesso troppo razionalizzata dalle nostre strutture letterarie “romanzesche”, sta proprio nella sua esagerata, radicale e indiscutibile semplicità di fondo: la poesia ha l’unico e solo scopo di dire ciò che dice senza altro di mezzo, e questo alla nostra mente abituata a trovare un compromesso nella comprensione di noi stessi e del mondo circostante può risultare di una difficoltà – e paura, forse – quasi disarmante. Forse è anche per questo che, spesso, nella storia della letteratura, chi ha scritto poesia ha sempre faticato o evitato di scrivere romanzi o simili: se il poeta in tal senso riesce nel suo piccolo a cogliere e farsi interprete della natura radicalmente semplice della poesia, senza compromessi di sorta, può risultare estremamente fuori portata per lui ricondursi poi di nuovo tra le fila della finzione letteraria. Penso ad esempio al progetto mai portato a termine da Leopardi di stendere un suo personale romanzo, rimanendo invece profondamente legato fino in fondo alla parola poetica[2]. Questo come altri esempi potrebbero confermare la natura assolutamente non schematizzabile della poesia all’interno di categorie letterarie che, di solito, hanno buon gioco nel portare a compimento un’opera di scrittura che potrà sempre e solo in parte toccare la superficie dell’esistenza con mano: non che non lo faccia o lo faccia poco (se il romanziere o chi per lui ha talento) ma semplicemente non potrà mai farlo del tutto, anche al suo massimo grado di espressione; un buon 15 % (o meno, chissà) di finzioni e compromessi rimarranno sempre adagiati sul fondo del distillato che l’autore ha preparato per noi, anche con tutta la sincerità letteraria possibile la quale noi non potremo non tributargli e apprezzare gustandolo tra un sorso ed un altro.

Fatta questa necessaria distinzione, resta da chiedersi allora se la poesia abbia a che fare con categorie d’esistenza totalmente a parte rispetto al resto della letteratura. La risposta è di fondo affermativa, ma anche qui corriamo subito il rischio di cullarci nel sempre fascinoso ideale irrazionalistico della parola poetica: il poeta allora è un rapsodo che spegne il cervello mentre scrive, invaso dallo spirito del mondo come gli antichi? L’idea come detto è tanto affascinante quanto (se non falsa) perlomeno pericolosa. Se non altro perché la poesia trova la sua distinzione dalla prosa “ordinaria” (e in primis da quella del romanzo) proprio attraverso alcuni suoi precisi e identificabili mezzi tecnici e, quindi, razionali che hanno a che fare con l’ars e non solo con l’ingenium del poeta: scansione metrica, rima (per chi la usa), assonanze, enjambements, anafore etc. Ma allo stesso tempo questa tecnica ricercata dal poeta non cade sotto l’egida di uno stretto dogma letterario: non si scrive poesia solo in rima, appunto, né si usano per forza anafore o simili ma la ricerca di determinati mezzi tecnici ed espressivi che razionalmente il poeta insegue nasce dalla musicalità su cui la parola poetica si innesta, che non è – come per il romanzo – compromesso letterario dal quale non si scappa ma fondamento ontologico della poesia stessa. La poesia è una musica, un canto, che dice le cose nella loro pura semplicità, alludendo ad esse: è in questa allusione – spesso difficile, “oscura” ed ermetica ma mai priva di senso – che la poesia disvela ciò che dice.

Anche per il poeta, come per il romanzo, la scrittura può avvenire a posteriori dell’esperienza ma quel ritorno distaccato, razionale, sul nucleo vitale cui la poesia allude trova sempre il suo corrispettivo nel momento di puro e semplice disvelamento che la parola poetica dipinge di fronte agli occhi del poeta. Come scrive Owen Barfiel in Poetic Diction – opera che può essere presa, a mio avviso, quasi come un vademecum poetico e curiosamente non ancora tradotta qui in Italia – ciò che distingue il poeta moderno dal (rischioso, come detto) rapsodo antico è proprio questo intervallo che interviene tra il momento dell’ispirazione e quello più puramente razionale che avviene a posteriori: nel corso dei secoli secondo il filosofo inglese l’intervallo tra i due «mood»[3] si sarebbe ridotto sempre di più, creando un’oscillazione tra i due stati nella mente del poeta continua durante l’atto della scrittura. Questo ci dice che, in altre parole, nella poesia il principio puramente razionale e quello che qualche riga sopra definivamo semplice, essenziale nel disvelare le cose non giungono mai per la natura poetica stessa all’impasse che invece accade altrove nella scrittura: la funzione della poesia è di dire le cose, non di raccontarle attraverso forme fittizie frutto di compromessi con il reale. Le sue forme, la sua tecnica, sono al contrario frutto della sua stessa natura elusiva (verso la scrittura in sé) ed allusiva (verso il mondo e le cose).

Se allora la poesia disvela alludendo, ed evitando compromessi e finzioni, resta da chiedersi quale che sia il motivo di fondo. Difficile trovare una risposta ma non darla rischierebbe, di nuovo, di rimanere in quell’alone misterico non meno dannoso alla comprensione del tema. Possiamo prendere a prestito allora le parole di Heidegger, che meglio di altri si è avvicinato all’essenza della questione: «Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere […]»[4].

Il linguaggio, nella sua forma poetica, è il mezzo attraverso il quale l’essere, il mondo e le cose, trovano la loro vera e pura manifestazione davanti all’uomo. Il poeta dunque, di per sé, non inventa nulla in questo senso: ma ciò non va inteso come una diminuzione del suo ruolo nel mondo, quanto piuttosto come la vera essenza del suo poetare, ovvero disvelare attraverso la parola (per sé e per gli altri) l’essenza stessa dell’esistenza. Detto con le parole – non lontane sul piano filosofico – di Barfield, la poesia e il poeta che la scrive hanno il ruolo centrale di ricordarci «the before unapprehended relations of things»[5], che nel nostro cammino storico di estrema razionalizzazione abbiamo ben presto dimenticato. Se al tempo dei rapsodi antichi, o ancor prima, l’uomo per il filosofo inglese era davvero a contatto con le cose, nella sua evoluzione è intervenuto questo distacco tra principio poetico e principio razionale. In tal senso, è proprio e solo la poesia, negli innumerevoli tentativi dell’uomo di narrare con le parole il mondo e la sua vita, l’unico mezzo che riesce a correre parallelamente a quella razionalità fatta di finzioni e compromessi senza mai fondervisi: la sua forma è parte integrante del suo dire, non aggiunta a posteriori completamente separata dal suo nucleo centrale. In altre parole, e avvicinandoci alla conclusione, la poesia grazie al suo potere allusivo riesce in quello dove altri tentativi invece si fermano: svelare con estrema semplicità e chiarezza l’esistenza che abitiamo e lo fa attraverso una forma, una tecnica che, al contrario del romanzo o altri generi, è il ritmo, il sottofondo musicale attraverso cui avviene quel disvelamento ai nostri occhi.

Quando allora leggiamo o scriviamo poesia, non stiamo solamente coltivando un piacere estetico o culturale, o poetico di per sé: l’unico principio poetico esistente infatti è quello che riesce, in un modo che forse ancora oggi ci sfugge in buona parte, a metterci in contatto con ciò che ci disvela davanti attraverso le parole. Non sarà un mistero della fede o un atto magico, ma nella sua forma riconoscibile e concreta ottiene forse il loro risultato.

  •  Paolo Andrea Pasquetti, 16 Novembre 2021

[1] R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, traduzione di L. Traverso, Adelphi Edizioni, Milano, 1980, p. 31.

[2] Sul tema, rimando a G. Leopardi, Scritti e frammenti autobiografici, a cura di F. D’Intino, Salerno Editrice, Roma, 1995 e a F. D’Intino, La caduta e il ritorno – Cinque movimenti nell’immaginario romantico leopardiano, Quodlibet, Macerata, 2019, dove l’autore dello studio interpreta e ragiona in entrambi i testi sul rapporto tra poesia e romanzo per Leopardi, compiuto e incompiuto e sul significato della poesia per il poeta recanatese.

[3] O. Barfield, Poetic Diction, A Study in Meaning, Faber & Gwyer Limited, London, 1928. pp. 105-7.

[4] M. Heidegger, Lettera Sull’«Umanismo», a cura di Franco Volpi, Adelphi Edizioni S.P.A., Milano, 1995, p. 31.

[5] O. Barfield, Poetic Diction, p. 47.

Franco Battiato – Avere cura

Dire addio ad un maestro è sempre una cosa difficile. Se poi si tratta di un autore come Battiato che ha scavato dentro ognuno di noi il compito non può che volgersi ad un umile saluto: così anche nella Radura, al centro del suo vecchio albero[1], appendiamo una corolla di fiori per il sentiero che il poeta ha saputo mostrarci durante la sua vita che ora avanza oltre:

Ti invito al viaggio

in quel paese che ti somiglia tanto

i soli languidi dei suoi cieli annebbiati

hanno per il mio spirito l’incanto […][2]

Se c’è infatti una caratteristica intrinseca alla poesia di Battiato che tra le altre lo contraddistingue, è proprio il suo invito ad aver cura delle cose, di noi stessi e degli altri che ci accompagnano nel nostro viaggio quotidiano. Tra le sue parole troviamo, probabilmente, l’immagine che un tempo il filosofo Martin Heidegger avrebbe descritto nel gesto del poeta che si fa custode della dimora dell’essere, dell’esistenza, la quale è proprio il linguaggio[3]: la parola che, se ascoltata, può condurci al nucleo di ciò che esiste oltre al superfluo che spesso lasciamo intrida la nostra vista sul primo. Le parole di Battiato allora ci invitano ad avere cura delle cose più minute, dei dettagli minori a cui però somigliano («come un filo d’erba / che si inchina alla brezza di maggio / o alle sue intemperie […] assomiglio»[4]) e tramite i quali possiamo acquisire un contatto più vero con noi stessi. Ciò ovviamente non è facile, e produce un punto di vista spesso ottenibile solo dopo un’attenta e sensibile strada percorsa nel nostro sguardo:

[…] E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare

l’alba dentro l’imbrunire.[5]

Si trova in esso allora la possibilità di poter completare noi stessi, accorgendosi di quanto siamo intimamente partecipi di un movimento che ha cura di noi: o meglio, scoprire che siamo già completi in virtù di esser parte al nostro interno di un’unità assoluta («[…] perchè sei un essere speciale / ed io, avrò cura di te»[6]). Spesso, semplicemente, ce ne dimentichiamo – a volte per lungo tempo – e proprio in questo frangente occorrono le mani del poeta per scavare attraverso la corteccia inspessita dal tempo della lontananza dal nostro centro interno, per recuperarci nonostante tutto. E i versi di Battiato vengono a ricordarci, risuonando, anche di questo ritorno in noi stessi, dell’avere cura di questo sentiero da cui nasce la richiesta ed il rapporto con quell’unità che riguarda – ognuno a suo modo – tutti noi:

[…] e non abbandonarmi mai

non mi abbandonare mai

perché la pace che ho sentito in certi monasteri

o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa

sono solo l’ombra della luce.[7]

Avere cura dunque. Il risultato è sempre un atto d’amore e comprensione verso noi e gli altri, di quelli che, appunto, spesso solo un anziano poeta che veglia accanto al luogo della nostra personale dimora interiore può ricordarci di fare («Ne abbiamo attraversate di tempeste / e quante prove antiche e dure / ed un aiuto chiaro da un’invisibile carezza / di un custode»[8]). Battiato, per tutti quello che hanno avuto la fortuna di ascoltarlo, è stata proprio quella carezza memore della cura a cui ognuno di noi è chiamato verso di sé, per poi aprirsi al mondo, scovando la propria via spesso sfumata dalla distanza esistenziale che solo la parola di un custode come lui può colmare.

Così, forse, possiamo immaginare ora il nostro poeta camminare tra i sentieri cui ha sempre indicato tramite le proprie parole, percorrendoli cantando e ricordando:

Molte sono le vie

ma una sola

quella che conduce alla verità

finché non saremo liberi

torneremo ancora

ancora e ancora.[9]

  • Paolo Andrea Pasquetti, 20 Maggio 2021

[1] Inizio, qui su Radura Poetica.

[2] Ti invito al viaggio, F. Battiato e M. Sgalambro, in Fleurs, Universal Music Italia, 1999, vv. 1-4.

[3] Lettera Sull’«Umanismo», M. Heidegger, a cura di Franco Volpi, Adelphi Edizioni S.P.A., Milano, 1995, p. 31.

[4] Haiku, F. Battiato, in Caffè de la Paix, EMI, 1993, vv. 3-5 e 8.

[5] Prospettiva Nevski, F. Battiato, in Patriots, EMI Italiana, 1980, vv. 25-6

[6] La cura, F. Battiato e M. Sgalambro, in L’Imboscata, PolyGram, 1996, vv. 10-1.

[7] L’ombra della luce, F. Battiato, in Come un cammello in una grondaia, EMI Italiana, 1991, vv. 17-21.

[8] Lode all’inviolato, F. Battiato, in Caffè de la Paix, EMI, 1993, vv. 1-4.

[9] Torneremo ancora, F. Battiato, J. Camisasca e Royal Philarmonic Orchestra, in Torneremo ancora, Sony Music, 2019, vv. 21-6.

Antonia Pozzi – Riuscire a toccare le cose

Leggere poesia può farti trovare molta vita tra le parole che cerchi, e queste ti accrescono e rimangono insieme ai tuoi pensieri. Sicuramente quella di Antonia Pozzi è una poesia del genere, di quelle che riguardano la nostra anima al suo stadio più intimo e delicato: se c’è infatti una cosa che mi colpisce sempre in maniera significativa delle sue parole, è proprio l’estrema facilità di toccare con una mano leggera[1] sensazioni e cose spesso inespresse nei nostri angoli di vita. Questo, soprattutto, riesce a farlo con una semplicità a volte estrema, regalando attimi di dolcezza e pienezza fuori dal comune:

[…] e questa prima erba

libera dalla neve

chiara

che fa pensare alla primavera

e guardare

se ad una svolta

nascano le primule […][2]

Anche in questo caso – come abbiamo detto la scorsa volta per Ungaretti – vale ciò soprattutto: sentirsi dentro la vita e guardare il mondo come qualcosa che riguardi anche noi, e non sia solo un esterno separato. Ma nella poesia di Antonia questa ricerca va più a fondo, in un certo senso, nel suo tentare la sensazione del contatto reale, del proprio corpo a contatto con le cose. Questo è anche un problema che riguarda ognuno di noi, ogni volta che rincorriamo la possibilità di afferrare ciò che desideriamo possedere, sentire dentro e fuori di noi per poter in qualche modo sentirci in piena linea retta con la vita, sperimentando spesso la frustrazione di mancare quel contatto, per i nostri limiti o forse per le occasioni che non si incrociano nel modo atteso:

Tristezza di queste mie mani

troppo pesanti

per non aprire piaghe,

troppo leggére

per lasciare un’impronta […][3]

Ma in realtà – le parole di Antonia ce lo dicono molto bene – voler afferrare le cose per appropriarcene, al contrario e senza invece accoglierle nella loro incostanza, porta solo a danneggiare ciò che desideriamo, ciò che amiamo nei nostri percorsi («Rinascere – non sai […] / il senso delle cose toccate / nessuno ti cancellerà più / dalle dita […]»[4]). Detto in maniera più semplice, ciò che corrisponde ad una morte priva di rinascita è uccidere ciò che potrebbe permettere quest’ultima, nel desiderarla ad ogni costo. Allora forse, a volte, vale la pena dire:

[…] Penso che forse è buono

che cadano da me

tutti gli alberi […][5]

Trovare ciò che corrisponde alla nostra vita significa anche, allora, accettare il fatto che questo non dipenda interamente da noi: accettarne la possibile (anche se non certa) perdita, la sua transitorietà rispetto a una continuità logica che è altra cosa dal durare cosciente, ogni giorno, all’interno di un sentiero di cui si è parte e non (solo) costruttori, e sicuramente non geometri infallibili. Per questo allora ci accorgiamo di riuscire a lasciare qualcosa per noi, per gli altri e per ciò che amiamo proprio in quei momenti di appartenenza più ampia («Per immense foreste camminammo: / i muschi / racchiudevano l’orma del tuo piede»[6]) dove alla fine si arriva a toccare – o forse (o meglio, chi potrebbe dirlo) sfiorare – le cose che sono parte di noi. Fare questo significa proprio tentare di incamminarsi su sentieri delle nostre giornate che sentiamo appartenerci davvero, tra quelli che sentiamo essere i nostri boschi e i nostri crocevia, e perciò la poesia di Antonia qui su Radura Poetica ci accompagna su questo percorso in cerca di quelle parole che riguardino anche noi.

Ritrovarsi allora dentro la consapevolezza di essere in contatto con quello che amiamo, e stupirci di quante volte abbiamo tardato a rendercene conto:

E la mia vera casa

con le sue porte e le sue pietre

sia lontana,

né io più la ritrovi,

ma vada errando

pei boschi

eternamente –

mentre tu dormi

ed i mughetti crescono

senza tregua.[7]

  • Paolo Andrea Pasquetti, 8 Maggio 2021

[1] La leggerezza nella Radura è qualcosa di positivo, ed ha a che fare con la semplicità che arriva al cuore delle cose. Potremmo riassumerla con le note parole di Calvino: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore» in Lezioni Americane, Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano, 1993.

[2] Tramonto, in A. Pozzi, Tu sei l’erba e la terra – le più belle poesie d’amore, Garzati s.r.l., Milano, 2020, vv. 4-10.

[3] Sfiducia, Ivi, vv. 1-5.

[4] Rinascere, Ivi, vv. 27 e 32-4.

[5] Non so, Ivi, vv. 6-8.

[6] Creatura, Ivi, vv. 4-6.

[7] Tempo, Ivi, vv. 17-26.

Ungaretti e la parola che apre al mondo

La bellezza e semplicità racchiusa nelle parole del poeta, e il suo sguardo che apre al mondo. Se dovessi cercare di sintetizzare al massimo quello che sento riguardo la poesia di Giuseppe Ungaretti, probabilmente utilizzerei queste parole. Pochi come lui riescono a comunicare quella che è una vera e propria apertura a ciò che esiste, che scorre intorno a noi: allora all’interno del mondo di Radura Poetica, dove ci si muove cercando le proprie, di aperture, iniziare con un poeta come lui può essere di certo di buon auspicio. Aprirsi al mondo dunque: fare questo non è semplice, soprattutto perché richiede, spesso, un’attitudine al fermarsi e al silenzio, rispetto al movimento vorticoso che accompagna costantemente le nostre giornate.

[...] Resto docile
all'inclinazione
dell'universo sereno [...][1]

Ungaretti rende molto bene questa posizione dell’animo che può aiutarci a vedere le cose, letteralmente. Quella che infatti troppo spesso ci perdiamo per la strada è la capacità di accorgerci dell’esistenza del mondo, di ogni cosa che lo riguarda. Tornare a saper osservare o meglio, sentire, tutto ciò che ci circonda, dopo molto tempo passato nell’intorpidimento dei sensi, spesso si rivela allora come una sensazione di strana ingenuità, la percezione di sentirsi all’interno di qualcosa di enormemente più grande di noi, che lascia spazio al nostro vagare per i suoi sentieri come piccoli punti pronti da un momento all’altro ad essere portati via da una folata di vento:

[...] Oscillo
al canto d’una strada
come un lucciola [...][2]

Questo ci fa anche capire, insieme ad Ungaretti, che il momento in cui decidiamo di aprirci all’esterno corrisponde esattamente a quello di metterci in cammino all’interno di noi stessi, ed è tutto fuorché facile. È proprio intraprendendo questo sentiero che veniamo a contatto con le parti di noi più spesso in ombra, con cui è difficile fare i conti («[…] E l’uomo / curvato / sull’acqua / sorpresa / dal sole / si rinviene / un’ombra […]»[3]), ma solo confrontandoci con esse possiamo proseguire la strada che ci porta direttamente a vivere nel mondo, stare in esso pienamente e, in un certo senso, poeticamente: se per poeticamente intendiamo vivere in armonia con gli altri e le cose che ci circondano, osservarle con sensibilità e comprensione. Per Ungaretti questo diviene possibile arrivando – tramite quel silenzio, quel fermarsi un attimo dalla corsa continua di cui parlavamo poco fa – alla parola:

[...] Quando trovo
in questo silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso [...][4]

In questo modo il nostro Ungaretti penso renda al meglio il potere della parola poetica di riuscire a dar voce a quello che sentiamo attraverso e insieme al mondo: ancora meglio, di illuminare quello che abbiamo di fronte e con cui abbiamo – sempre, volenti o nolenti – a che fare. Se c’è infatti una cosa di cui spesso avvertiamo la mancanza, è il giusto senso da trovare in un determinato elemento della nostra vita, delle giuste parole per definirlo: così a volte tendiamo a muoverci oltre di fretta, avvertendone però la mancanza. Ed è proprio qui che si insinua, se noi in primis lo permettiamo, la parola poetica per svelare quello che fino a quel momento magari vedevamo soltanto, senza sentirlo o magari guardandolo con occhi non sufficienti a coglierne il senso: un senso che, attenzione, non ha a che fare con una definizione analitica o freddamente razionale, ma riesce semmai a coniugare un punto di vista specifico e uno generale, ovvero riuscendo a cogliere in un solo termine tanto il valore in sé di qualcosa, tanto quello più grande che la riguarda e comprende. Questo da così la misura di qualcosa che davvero – come noi del resto – esiste nel mondo e grazie a questo esiste anche in sé stessa, mantenendo col primo un rapporto necessario, spesso dimenticato e sfumato. Così le parole che usciranno fuori dal nostro silenzio, dopo il cammino verso una parte di noi ora più conosciuta, saranno semplici, non avranno bisogno d’altro per mostrare la semplicità, a volte davvero sconcertante, del nostro stare nel mondo:

Ho una corona di freschi pensieri,
Splende nell’acqua fiorita.[5]

  • Paolo Andrea Pasquetti, 28 Aprile 2021

[1] A riposo, in L’allegria, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo – Tutte le poesie, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2016, vv. 4-6.

[2] Giugno, in Naufragi, Ivi,  vv. 56-8.

[3] Vanità, in L’allegria, Ivi, vv. 7-13.

[4] Commiato, in L’allegria, Ivi,vv. 9-13.

[5] Paesaggio, in Sentimento del Tempo, Ivi, vv. 1-2.