Tre poesie di Dario Grillo

L’abaco irriducibile del sacerdote

Grammi di luce – ridesta

veglia grama

nell’abituro che sussurra – sepoltura

   

Cotonato in quel

tessuto grembo

   

innesti di viscera

clone di filogenia magra

neve che sisma

la carne di invertebre

ed il tronco che muffa

   

Con tarso

vestire l’innervato obbrobrio

irrobustendo la cornea

non la chiude più

a quei grammi rauchi

a reggere

a reggere

a remigante suono di nutazione

del truciolo corrotto

foraggia la radica

   

Questo inciso deformato dal buio

è corpo

Viene forgiato dal voltaico tocco

al tatto graminacee

che cuciono l’impronta

   

come luce nel passato

si fa limpida torba.

* * *

Sacchi di salme gettate dalla prua di un veliero che circumnaviga la galassia.

Un tenue buio viene

sulla gaia guglia

quando

i nembi asciutti sono

riparo di fumiganti lembi

Prima di essere

ratifica della vita

oltre il respiro

   

E l’esodo del polline

patogeno calco di un passaggio segreto

Stagione

nei borghi

seppellita

   

Cadaveri eterei – in mani di uno straniero

i palmi dischiusi

ilari ai sospiri del borgo –

Nel vento, nido dell’uria

nell’aria sono fecondi agrumi

Mortifere ifantrie

nell’aria posate

come coperta dell’aviaria pelle

   

bramano le onde

sul Filo di sale

una cabrata per lasciarsi

   

alzano e si abbassano –

l’addormentata superfice

trapassano.

   

Questi abissi rischiarano

   

un aborto che respira

che ha smesso di trattenerlo

   

in questi abissi

nuotano.

* * *

L’ermetico comprendere

A volte capita

di sentirmi un Diavolo

diverso; assieme alle parole

Siamo;

Se alcune non le capiamo

anche fino il pozzo di esse

noi le lasciamo inosservate

davanti ad uno specchio, appannato

dal freddo distacco

della comprensione

   

Ma il peggio arriva quando

le parole sapute, cadute vanno

nel lugubre pozzo del dimenticatoio

nell’isolamento insulare

spettante a ognuno di noi

Siete responsabili di quelle morti

allora

di quei mari tumidi di sporco

   

Lì si!

che nell’ebbro scompenso, in voi

ribolle ogni frugale delirio

che già da tempo frugava in voi

dal penetrale occhio acritico

che ciba la vostra sommossa all’analisi,

per non ricorrere più all’oblio,

a quell’albero della radice, cui

asportate la corteccia

   

Una parata di diavoletti che

la lingua si masticano, le altrui anche

masticano, nella speranza che

sia ancora vivo il sapido

del termine setacciato.

   

Esercito di arcangeli sospesi dalle

fila adamantine

di un glossario logorato

in desuete demorfologizzazioni,

l’eco di una prosa

in una lingua aliena

l’urto di un sarcofago profanato.

   

Siete antifrasi

per debellare – o

debellarvi – il vostro credere

Una nuvolaglia di fitte nubi

sguarnite di ogni massa

Come un novilunio acceso

non si conta il novero degli astri

delle acmi inesplose

dagli anni privato – il cielo

è pregno d’invisibilità

   

Insorge un’iride vitrea

che osserva epitaffi

È un ricatto d’orgoglio,

   

giace sudicio terriccio

in quella calotta mefistofelica

   

una rovina splendente

ma diroccata già

al culmine dei suoi drammi

Si nasconde in quell’anfratto deontologico

l’epigono grigio

che riprende

                      [a camminare

                      [a sgranchire

il disco del collo

                      [a tirar su

la crapa

   

ed assorbito

da ogni indecifrazione

Rimesta fra ciotole di scarabei

e deficiazioni

Come fosse cottimo – registro numismatico

erario che

non ha scrivania – col solo

Latrato

pronunzia le libbre

di inabitati sistemi monetari.

   

Dal promontorio, Empi

gli scettici sguardi

se per un attimo si strizzano,

quel tipo laggiù – gli pare essere

quel Diavolo della novena – più volte

sillabata

sgomberando il verbo*

*dì·h·o

* * *

Nella poesia di Dario Grillo si nota sin da subito un’immersione volontaria all’interno di una sorta di crisi sistemica del linguaggio avvertita dall’io con profondità, tra punte di netto ermetismo e giochi linguistici variegati: dall’assenza prolungata fino all’estremo della punteggiatura all’accostamento quasi compulsivo di termini semplici accanto a quelli aulici e/o maggiormente ricercati, creando una polifonia linguistica avvolgente.  Da questa tensione si origina quindi un ritmo ruvido, spesso incostante a cui fa eco a volte una forma dei versi quasi esplosa e frammentata sullo spazio bianco e indefinito del racconto: entrambe le cose sono espressione di quella stessa destabilizzazione della parola che guida la narrazione poetica dell’io man mano strofa dopo strofa.

Eppure, tra un’assonanza e l’altra, si riesce a cogliere una melodia cha sembra far da guida a un viaggio alla ricerca della parola stessa ora apparentemente perduta, seguendone l’eco tra immagini allucinate, metafore pungenti e cadaveri di parole cadute negli abissi dell’oblio e del disuso. Tuttavia, anche gli abissi forse rischiarano ciò che di dimenticato può essere recuperato e richiamato a sé.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 13 Luglio 2022

Tre poesie di Marco Levi

La ragazza trovata all’alba

le sneakers quasi sfiorano

la terra, la testa

non si vede

occlusa da foglie.

* * *

Il Bosco verticale mi fa piangere

non è un bosco normale

è un bosco fantasma.

Il Bosco della droga non respira

discende

fra rami di suini.

Rogoredo è più bromuro.

   

Boschi che si osano su Marte

boschi abbandonàti ai suicidi;

sradicato per le rètine l’Adàm

senza limite l’andare.

   

Oh, profumasse ancora il bosco

la corteccia la rugiada

l’elettrone nello stagno

il ragazzo

e la fanciulla fra le foglie

cellule vicine

a dove si è sbocciati.

* * *

Satana brucia gli alberi di notte

perché gli alberi respirano padre

madre degli umani tutti separa

seziona svergina riserve liguri

che poche ci canteranno cicale.

   

Estirpa l’ossigeno come erbaccia

totem pianta nella terra il suo big bang

fosforescente forte soffocare.

   

Lascia sui sentieri i suoi escrementi

fazzoletti per il bosco di San Rocco.

* * *

Nelle poesie di Marco Levi emerge sin da subito una certa predisposizione a giocare con la costruzione dei versi, andando a creare un percorso particolare. Da qui, ad esempio, l’assenza prolungata della punteggiatura che va a legarsi ad una scansione di ogni singolo verso quasi a scatti, ritagliando ogni volta dei brevi momenti di lirismo ognuno dei quali perfettamente a sé stante: come se, all’interno dei vari componimenti, si inanellassero uno dopo l’altro degli haiku non ordinari. A volte la tensione dell’autore a forzare il ritmo e la sintassi poetica lo spinge ad arrivare, in particolare al giro finale delle strofe, a momenti di ermetismo nel frenetico accostamento ritmico di nomi, avverbi, verbi etc. gettati sulla pagina bianca in sequenza ininterrotta.

D’altra parte, nel racconto poetico vero e proprio spicca l’elemento naturale e, in particolare, quello del bosco utilizzato come luogo e metafora di storie dure e sofferenti, i cui elementi vegetali ora celano con dolcezza ora invece svelano in maniera cruda. È questo bosco a cui l’io però guarda con nostalgia come immagine di una purezza incontaminata e lontana nel tempo e ora, forse, irrimediabilmente corrotta dagli eventi che vi si svolgono all’interno e dei quali l’io stesso decide di farsi sofferente cantore: attraverso il canto il bosco comunque rimane, tra ricordo e sofferenza.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 30 Giugno 2022

Tre poesie da La scoperta del fuoco di Guglielmo Aprile

Il segreto degli aquiloni

Non al mondo appartieni ma a una favola,

tu a diverse altitudini

viaggi rispetto al traffico e alla folla,

e sai che sogni cullino

gli aquiloni dormienti sopra i tetti:

tu non abiti i nostri

cunicoli scavati nella cera,

tu non indossi questi

severi brutti abiti di pietra,

ma dall’incantesimo nata

di una notte d’agosto, tu figlia

dei rami che alle prime ore un brivido

di voli squilli odori

e cicale impazzite

a farti festa scuote;

   

tu sai di quale reame segreto

vadano in cerca i pollini

e tutte le cose che viaggiano

sospese a mezz’aria e non hanno

quasi peso, e alle rotte

del vento ad occhi chiusi si consegnano.

* * *

Ti porta lo scirocco

Non mia né di nessuno, è allo scirocco

che appartieni, e non alle mie mani

ma alle cavallerie del sud che l’oro

dell’estate saccheggiano dai campi

e in scia alla loro fuga lo disperdono.

   

E ascoltandoti apprendo un’altra lingua,

giorno per giorno: non quella del mondo,

ma quella delle conchiglie e degli alberi:

intraducibile, in codice, oscura

a chi non ti abbia mai vista sorridere.

* * *

Tu che sei di ogni alba testimone

Le tue labbra, asse e vertice

delle orbite siderali, e archivio

di miti e cosmogonie; tu precedi

la prima spiga, e schiudi

i cancelli all’estate

quando irrompe e sprigiona fiamme e oro

dalle labbra dell’erba; e nel tracciato

delle nuvole fissi

cardini e punti chiave di una nuova

teologia: è te che tutto ciò

che splenda o voli

venera; ed è la rosa

della tua bocca un tempio

dentro cui un cieco

ogni giorno entra e aspetta che esca l’alba.

* * *

La linea guida principale dei testi poetici di Guglielmo Aprile, tratti dalla raccolta La scoperta del fuoco (Leonida Edizioni, 2022), pare essere quella di un dialogo ininterrotto con un tu sempre presente come funzione principale del movimento delle parole verso di esso. Un tu che spesso si fonde – ogni volta che l’io poetico tenta di definirlo davanti ai suoi occhi – con le immagini e le sensazioni del mondo naturale circostante. Da qui, infatti, scaturiscono immagini idilliache che trasportano la narrazione dei versi nello spazio indefinito e atemporale di una rivelazione: è proprio grazie al passaggio promesso e atteso di questo tu che, dischiudendo nuovi luoghi in cui ritrovarsi in altrettanti nuovi modi, l’io apprende una nuova lingua, nuove parole per dire le cose all’interno di un’intensa ed erotica fusione con la natura.

In questo contesto, spiccano i numerosi enjambements a legare i versi in questa tensione avvolgente assieme ad assonanze interne e inversioni come quasi a scandire un ritmo stabile, ben definito e posseduto con fermezza dall’autore. Allo stesso tempo, questo tu inseguito con le parole ed agognato in tutto ciò che può donare a chi sia testimone del suo passaggio si assesta in una particolare e assoluta dimensione di non appartenenza: né dell’io né di altri ma solo di quell’universo naturale di cui è espressione ed ipostasi tra amore e quasi religiosa deferenza. Così il dialogo cresce e nutre il cammino durante il suo percorso tra parole ed immagini.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 16 Giugno 2022.

Tre poesie da C’è un sacco di spazio sul fondo di Elisa Malvoni

15:00

È tutta mia

la penultima fermata

a cui si arriva

per asfalti di periferia.

È ferma l’afa,

la agita la corriera

sbuffando in ripresa

sulle erbe aromatiche

appese alla via stretta.

Una nube grigio-nera

si rarefà sulla piazzetta,

per rispetto all’angelo

che suona la trombetta

dal frontone della chiesa.

   

Mi riconosci

nel passo della fame,

nello zaino sfondato,

nella cartella trasparente

e nello schizzo lì dentro

di un brutto disegno

pur sempre da completare.

Marcio su casa

col peso di me stesso

sulla schiena curva,

nei pantaloni la camicia

e la cintura contraffatta

che mi tiene in vita.

* * *

Da Recanati

È troppo facile affacciarsi

e farsi ispirare

da quel collage di Belpaese

che scarta le periferie di Milano

o le industrie di Varese.

   

Nei territori del Po

è fortunata la scrittrice

che ha una stanza tutta per sé

dove stiparvi derrate immaginarie

come materie prime d’importazione

per le sue poesie o un memoriale.

* * *

Come una bambina che fa sul serio

Sono seria come una bambina

mentre prova a fare la scrittrice.

   

Ho preso un quadernetto a righe,

gli occhiali e diverse matite,

ho una scrivania tutta mia,

la luce sopra, il cassetto sotto,

lì dentro un vocabolario fine

e alcune leggi dell’universo.

   

Gioco a ricomporre con quel poco

le parole della cosmogonia.

* * *

Nella poesia di Elisa Malvoni, tratta dalla sua recente raccolta C’è un sacco di spazio sul fondo – Reportage poetico dal piccolo (Edizioni Bette, 2022), si srotolano davanti agli occhi del lettore una serie di elementi del mondo reale riportati in maniera diretta e semplice, a fermare immagini ben definite di una vita metropolitana e incidendo con delicatezza al loro interno sogni, sofferenze interne e mancanze. In questo spazio poetico prevale un forte uso di assonanze spesso alterne, una musicalità quasi ad incatenare un verso dietro l’altro al ritmo di questi squarci di vita che l’io narrante propone ogni volta.

La quotidianità del racconto porta dentro di sé alcuni elementi interni interessanti, come la citazione di Virginia Woolf, «[…] è fortunata la scrittrice / che ha una stanza tutta per sé […]» dal suo omonimo saggio: da qui sembra dipanarsi così la ricerca di un proprio spazio, un proprio angolo di mondo in cui trovare le misure di se stessi e rimanervi. In questa «stanza tutta per sé» c’è quindi la possibilità di usare la poesia come gioco – tuttavia serio – per ricomporsi, scavalcare la mancanza (anche a dirsi e dire le cose) di un luogo che ispiri la parola di cui si percepisce sempre l’esclusione periferica: è la vita ai margini che prova a darsi forma nelle sue mancanze scavate nel tempo della ricerca di sé.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 9 Marzo 2022

3. Rimanere nel luogo

Il mare fischiava dolce, mentre il vento giocava sulla schiuma delle onde. La ragazza era ancora poggiata sul parapetto alla prua della nave a godersi il sole sul viso, in attesa dello sbarco: la spiaggia era ormai a poche decine di metri e le mancava, dopo settimane sull’acqua, il contatto con il calore accogliente del suolo. Un piccolo gabbiano grigiastro rimase a dondolarsi al vento alla sua destra, garrendo di tanto in tanto: sorrise per poi legarsi rapidamente i capelli bruni in una treccia semplice. Era il suo primo viaggio così lungo e lontano da casa, a leghe e leghe di distanza oltre il Mare del vento: in quel momento una folata più forte del solito quasi le colpì con forza il viso sottile e lentigginoso, costringendola a chiudere gli occhi e ripararsi con le mani. Il gabbiano sembrò guardarla incuriosito con i suoi occhi giallastri e oziosi mentre, con difficoltà, si rimetteva in sesto di fronte al volatile perfettamente a suo agio tra le correnti d’aria. «Un nome decisamente azzeccato per questo mare…» pensò tra sé e sé mentre scendeva dalla prua, accompagnata dal rumore delle spesse assi di legno sotto i suoi piedi e dall’onnipresente vento che avvolgeva l’imbarcazione e l’acqua circostante. Il piccolo gabbiano garrì di nuovo alle sue spalle facendo voltare la ragazza di sbieco, incuriosita: con un agile movimento il pennuto virò di lato allontanandosi dall’imbarcazione, verso sud ovest. La giovane sospirò malinconicamente mentre stringeva le palpebre per proteggersi dai raggi del sole, giocherellando con la treccia dei capelli tra le dita sottili. «Pochi minuti e si sbarca… si prepari se non vuole fare tutto di corsa!» tossicchiò la voce roca e profonda di un marinaio appena sbucato dalla cambusa sbuffando e ansimando. La ragazza si limitò ad annuire sotto un sorriso sottile appena accennato e andò a recuperare i suoi pochi bagagli in cabina, lasciandosi alle spalle il vento che continuava a stridere attorno ad ogni cosa.

Lo sbarco fu in effetti piuttosto sbrigativo. Mentre riponeva nello zaino un libro dalla copertina nerastra e consumata iniziò a sentire in maniera sempre più chiara il crescendo di un’orchestra di rumori portuali: dalle campane sulle banchine alle voci concitate dei marinai intenti alle operazioni di attracco; il tutto avvolto da un ronzio di fondo che si intrufolava tra ogni suono più o meno distinto. Era il motivo della città portuale, della sua vita sempre attiva e intricata tra i vicoli umidi che odoravano di pece e salmastro giorno e notte. L’aumentare di volume delle voci dei marinai le fece capire che fosse ormai ora di sbarcare e, senza trattenersi oltre dalla piccola cabina che l’aveva ospitata in quelle settimane, uscì dalla stanza in fretta. Sulla soglia lanciò un ultimo sguardo alla cuccetta legnosa posta dall’altra parte della cabina, di fronte alla finestrella tonda che ne illuminava il materasso ruvido la cui sola vista le rievocava nottate non particolarmente confortevoli: in qualche modo le sarebbe mancato quello spazio angusto dove, cullata dal movimento dei flutti del mare, aveva passato intere giornate a leggere e prendere appunti, a fissare le assi del soffitto scricchiolare ed oscillare di tanto in tanto in attesa di quel momento ormai arrivato. Mentre pensava a queste cose, senza rendersene neanche troppo conto, si ritrovò di nuovo con il sole in faccia ad attendere il suo turno per attraversare la passerella per lo sbarco. Il sottofondo caotico della città da ovattato e distante ora, lì all’aperto, sembrava colpirle i timpani da ogni angolazione sonora. Si guardò attorno: la città sorgeva in un golfo non troppo grande e sembrava seguirne la fisionomia naturale adattando le sue costruzioni, le sue strade e i suoi tetti al semicerchio che caratterizzava quel punto della costa. Il porto era particolarmente affollato quel giorno e il suo campo visivo era interamente occupato dal traffico di abiti multicolore accalcati sulle grosse banchine in pietra e dalle tegole rossastre sopra di lei, sfocate dal fumo dei numerosi comignoli delle botteghe in piena e frenetica attività. La ragazza rimase un attimo titubante mentre i due passeggeri davanti a lei iniziavano pigramente a scendere attraverso la spessa passerella di legno a sostenerli. «Insomma… non vorrà rimanere su questa zattera!» tossicchiò alle sue spalle la voce del marinaio di prima nella maniera più cordiale che potesse mettere in campo, risultando solo un po’ goffo. La giovane si riscosse come da un sonno leggero e, ringraziando sottovoce l’uomo, scese la passerella in direzione della città. Non appena la suola del suo stivaletto destro venne a contatto con la pietra ruvida e ingiallita della banchina non poté non percepire il calore che la terraferma sembrava emanare ininterrottamente e che ora si faceva strada in lei. Fu come sentirsi di nuovo collegati a un flusso perpetuo dal quale era rimasta separata per settimane dal freddo dell’acqua e del vento: si era sempre sentita connessa al mondo e a ogni sua cosa che percorreva e ora, finalmente, tornava a sentirsi parte di un’unità che un elemento estraneo per lei come il mare le aveva sottratto per troppo tempo. Rimase un attimo salda su entrambi i piedi a godersi quella sensazione di ritrovata unità con le cose e sorrise lievemente: il vento sferzante dei giorni scorsi ora, nella città protetta dal golfo, sembrava svanito o ridotto di tanto in tanto a una lieve brezza tiepida e piacevole. Senza perdere tempo si fece strada con passo allegro davanti a lei e si ritrovò già immersa nella folla accalcata tra le bancarelle e le botteghe portuali. Mentre avanzava a stento tra i gruppi di persone, passando al lato di un ampio portico che faceva da entrata a una bottega non meno ampia, sentì le sue narici invase dall’odore pungente di spezie di ogni tipo: ne riconosceva alcune, molte altre tuttavia non le aveva mai viste o sentite. Dai grossi sacchi che le contenevano, le polveri multicolori delle spezie facevano quasi a gara con i ricchi abiti sgargianti di molti borghesi affaccendati scupolosamente a osservare la merce e a contrattarne con i mercanti il prezzo tra grida, risate e un vociare interminabile che accompagnava ogni loro gesto o movimento. L’odore di alcune spezie era così forte che gli occhi della ragazza iniziarono a lacrimare mentre con fatica sgusciò tra due gruppi affollati di persone che non si accorsero neanche della sua presenza, quasi schiacciandola tra stoffe, spezie e le impalcature delle bancarelle. Ansimando e cercando di asciugarsi le lacrime dagli occhi la giovane iniziò a percepire un senso di oppressione crescente dentro di sé: quella vita così strabordante e rumorosa non era il suo luogo; la terra che amava percorrere era fatta di suoni gentili e odori quieti ad accompagnare un passo lento per fermarsi con calma a sentire le cose, non a stordirsi nella loro confusione. Con non poca fatica e le guance rosse per il fiato corto sbucò in uno slargo dove una folla non meno nutrita delle altre si aggirava attorno a un gruppo di bancarelle poggiate al muro di un grosso edificio biancastro. La costruzione faceva angolo con quella che sembrava la via principale che man mano saliva e si addentrava verso il centro della città. Lì fu attirata dai versi di numerosi animali provenienti dalle gabbie di ferro che un mercante dalla voce stridula e avvolto in delle pesanti vesti giallognole passava in rassegna, gridando e sbracciandosi verso gli acquirenti interessati, rilanciando prezzi e offerte picchiettando con una bacchetta in legno sulla gabbia oggetto della vendita. All’interno delle sbarre si potevano scorgere ora piccole scimmie, cani o volatili che passavano da pose sonnolente e smorte a un contorcersi spaventati dal chiasso della folla circostante. La ragazza non poté non provare una fitta fin dentro il petto nel vedere quelle che per lei erano vite ingabbiate all’interno di un chiasso incurante di tutto se non del loro prezzo. Aggiustandosi lo zaino dietro la schiena e scrollandosi la polvere dalla veste fece per passare in fretta oltre quella visione non particolarmente allegra quando la sua attenzione fu attirata da un rondone dal piumaggio tra il grigio e il marroncino che svolazzava in preda al panico all’interno della gabbia troppo piccola che lo conteneva, sbattendo confusamente addosso le sbarre e cinguettando in maniera penetrante. Il mercante, col sudore sulla fronte per il caldo che tuttavia non sembrava impedirgli di mantenere le grosse vesti in cui era avvolto, gridò in maniera stridula nella direzione dalla gabbia, battendo con forza su di essa con la propria bacchetta nella speranza di calmare il rondone che, per tutta risposta, andò ancor più nel panico. La ragazza, quasi assorbita dalla sofferenza dell’animale, si avvicinò in maniera più decisa facendosi largo a spintoni tra la folla, trascinata da quella che sentiva essere una rabbia crescente. Il mercante continuava ad urlare tra il sudore e il suono insopportabile e violento della bacchetta sulla gabbia, accompagnato dal cinguettio sofferente del rondone. La giovane arrivò in prima fila proprio davanti alla scena e, in un modo che neanche lei avrebbe saputo spiegarsi, era in procinto di urlare in faccia al mercante o perlomeno di fare qualcosa per impedire il continuo della sofferenza dell’animale quando all’improvviso una scimmia, gridando alle spalle dell’uomo, afferrò le sue lunghe vesti gialle tirandole con forza. Il mercante, tra le sue urla stridule e sgradevoli, incespicò e cadde rovinosamente a terra nella polvere urtando nella caduta la gabbia del rondone che, finita al suolo, si aprì di scatto e permise all’uccello di fuggire rapidamente tra i comignoli dalle case, svanendo alla vista dei presenti sbigottiti tra il loro vociare concitato e le risate dei bambini ripresi dalle madri composte nei loro abiti ben curati. Il mercante si rialzò dolorante imprecando mentre alle sue spalle la piccola scimmia sghignazzava allegra: sembrava non meno divertita dalla scena della ragazza che, sorridendo non troppo velatamente, fece per andarsene soddisfatta. Mentre il mercante malediva la scimmia ma senza la sua bacchetta, spezzata nella caduta, la giovane fece l’occhiolino a un bambino che le sorrise divertito, coprendosi con la manina la bocca sorridente prima di essere coperto dallo sguardo austero e scocciato della madre.

La ragazza pensò di averne avuto abbastanza di quel luogo e di quelle persone e, senza altri indugi, seguendo i cartelli all’angolo della strada si diresse il più in fretta possibile alle porte della città. Affrettò il passo: man mano che si lasciava alle spalle il caos del mercato portuale sentiva il fiato alleggerirsi e la mente iniziare lentamente a svuotarsi, rilassandosi quel tanto che bastava per farla concentrare sulla direzione da seguire. Il centro della città non era meno debordante di vita del porto e, seguendo la strada principale che passava inevitabilmente per la piazza centrale, la giovane incurante del resto cercò di percorrerla il più in fretta possibile destreggiandosi tra i carri dei mercanti e il rumore degli zoccoli dei cavalli accompagnati dal continuo vociare cittadino. Dopo qualche minuto, superò anche l’ampia piazza e si ritrovò in vista delle porte della città. A guardia stavano due soldati bardati in una giubba blu: uno dei due era appoggiato pigramente all’alabarda, incurante del traffico di persone attorno, mentre l’altro sembrava tutto preso a discutere in maniera divertita con alcuni uomini alla sua destra. Nessuno dei due sembrò accorgersi della ragazza che, per tutta risposta, uscì dalla città senza farsi pregare ulteriormente. Nel momento in cui superò lo spesso portone di legno e il perimetro delle solide mura in pietra della città fu come se tutto il rumore del mondo circostante si fosse incurvato al massimo del suo apice, per poi piombare improvvisamente in un nuovo silenzio che si apriva, ora, sul paesaggio campestre di fronte agli occhi della ragazza. Quasi intontita da quello stacco sonoro incespicò un attimo su se stessa prima di riprendere il cammino, col rumore di fondo della città alle sue spalle che, sebbene ovattato e sempre più lontano e flebile, voleva dimenticare al più presto. Davanti a lei le fronde degli alberi ai lati della strada si piegavano dolcemente alla tenue brezza marina, cullando i campi tutto intorno in una danza estiva silenziosa e pacifica. Mentre proseguiva notò una stretta svolta sul terreno che, tra ghiaia e terra, saliva su una piccola collina alla sua sinistra. Senza fermarsi a pensare iniziò ad arrampicarsi sul sentiero in salita e, dopo pochi minuti e con ancora un po’ di fiato corto, giunse sulla cima erbosa del rilievo. Si trovò a vagare ora con passo lento, ora fermandosi di tanto in tanto a guardarsi attorno, in un boschetto di betulle che faceva da corona alla sommità della collina: sotto i suoi piedi, un soffice e folto manto erboso di un verde tenue ma florido si gonfiava al ritmo del vento, che lì sopra fischiava con poca più forza tra le fronde degli alberi richiamando alla mente della giovane un’orchestra di viole e violini pigramente intenti a suonare una musica lenta e sempre costante. Si fermò di nuovo, appoggiando la mano sul legno rugoso e biancastro di una betulla, per poi guardare in alto. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, sorridendo: quel luogo ora era pace, lontano dal caos della città indaffarata nella sua vita dissipata sulle cose. Senza aprire gli occhi e continuando a sorridere si lasciò scivolare lentamente con la schiena premuta sul tronco verso giù, fino a sedersi a terra, lasciando vagare le dita tra i ciuffi d’erba sottili che ora accoglievano il suo corpo lì disteso a risposare.

Mentre il rumore del vento tra gli alberi accompagnava la sua sosta, si tolse dalle spalle lo zaino e sistemò la sua veste verde-foglia che, a contatto ora col manto erboso, sembrava fonderla perfettamente con quel piccolo pezzo di mondo che era riuscita a trovare dopo tanto vagare. Si godeva quietamente il sole sul volto e le braccia, mostrando la pelle abbronzata dai giorni in mare, lei che era sempre stata una ragazza pallida fin quasi a scolorire sotto i vestiti che indossava nella sua casa ora lontana: forse quel viaggio già le aveva portato qualcosa di inaspettato, come adesso la sua pelle dolcemente sfumata e imbrunita dalle frequenti visite del sole che le infondeva un nuovo calore dentro, una spinta leggera e desiderosa di proseguire il suo cammino anche se incerto e, forse, molto lungo. Sentiva che non importava la difficoltà che avrebbe intralciato i suoi passi tra un sasso e l’altro. Valeva la pena andare, trovare la vita che aveva fino a quel momento dipinto a parole o che quelle d’altri le avevano dipinto di fronte agli occhi. Forse adesso la parola non avrebbe più solo accennato alle cose ma gliele avrebbe indicate davanti, mostrandogliele una volta scoperte e prese con delicatezza tra le mani per farle durare insieme a lei. Aprì gli occhi e senza smettere di sorridere si strinse in un abbraccio verso se stessa, passandosi lentamente le mani sulle spalle scaldate dal sole. Mentre le dita scendevano sul braccio sinistro lasciarono colpire dai raggi di luce un piccolo tatuaggio che raffigurava una foglia stilizzata, all’altezza della spalla scoperta. Erano passati già alcuni anni da quando era stato disegnato e l’inchiostro, visibilmente sbiadito in più punti, seguiva la superfice del braccio della ragazza. Ricordava bene il significato che si nascondeva dietro quella figura incisa sulla sua pelle ma negli anni aveva sentito come un distacco apatico crescere tra di lei e quell’idea, quel sogno, e ora sbiadiva lentamente di fronte ai suoi occhi. Fu in quel momento che, dall’alto dei rami sopra di lei, una foglia verdognola si staccò e spinta dal vento andò ad appoggiarsi proprio sul tatuaggio che ne rappresentava la forma, rimanendo lì premuta dalla forza delicata dell’aria per qualche attimo prima di volare un poco più lontano. Il contatto ruvido e fibroso della foglia la bloccò quasi di colpo, mentre fissava interdetta la piccola sagoma che frusciava via da lei verso gli alberi. Sentì come se quel piccolo pezzo di mondo si fosse appoggiato con dolcezza su di lei, proprio come lei aveva fatto istintivamente poco prima sul tronco dell’albero che ora aveva alle spalle. Dal tatuaggio adesso percepiva un forte formicolio, una sorta di invito a riacuirsi nella sua forma e riconsiderarsi e, stordita dalla cosa, rimase con lo sguardo fisso in un punto a caso mentre poteva ora distinguere quasi con certezza il suono di archi provenire dai rami sopra la sua testa. Poi un cinguettio penetrante risuonò dietro di lei. Si voltò di scatto prima di sentirlo di nuovo alla sua destra: accompagnato da un leggero fruscio d’ali, il rondone fuggitivo del mercato le planò accanto a pochi metri di distanza sul prato, zampettando allegro. La ragazza sorrise di nuovo, stavolta aprendo la bocca incredula, e tese leggermente la mano verso il piccolo animale. «Hey tu… ciao» disse a bassa voce, mentre davanti a lei l’uccello la squadrava incerto dalle sue pupille scure. «Hai fame per caso?» continuò la giovane voltandosi in fretta verso lo zaino e, dopo aver rovistato un attimo al suo interno, spezzettò da una stozza di pane avvolta da un panno alcune briciole lanciandole con delicatezza verso l’animale che, per tutta riposta, dopo un breve sguardo dubbioso si avvicinò iniziando a beccare qui e lì. La ragazza sorrise e di colpo il rondone, una briciola di pane nel becco, spiccò il volo andandosi a posare sulla sua spalla, lasciandola gridare sottovoce per lo stupore. Il volatile, appoggiato saldamente sulle piccole zampe, terminò di mangiare e cinguettò allegro all’orecchio della giovane che, prima ancora potesse dire qualcosa, guardò l’animale volare velocemente su un ramo poco sopra la sua testa e rimanere lì pacioso, squadrandola di tanto in tanto dalla sua posizione sopraelevata. «Sono felice della tua compagnia, piccolo amico» sorrise ancora la ragazza guardando in alto. «Finché vuoi potrai seguirmi e sentirti al sicuro fuori da quella città». Il cinguettio allegro del rondone le sembrò una risposta abbastanza chiara e, spostando il peso del corpo sulle braccia tese ai suoi fianchi, si lasciò andare supina sul prato.

Il fruscio dell’erba ora le sfiorava i capelli distesi a terra, punzecchiandole di tanto in tanto le orecchie come a sussurrare al loro interno qualche nenia instancabilmente antica e docile. Da quella posizione poteva guardare le fronde frusciare al ritmo del vento, tra un raggio di sole e l’altro che entrava attraverso il reticolato verdognolo delle foglie e, prima di chiudere gli occhi, scorse il piccolo rondone svolazzare tra i rami allegro. «Rimanere in un luogo…» pensò mentre si godeva l’erba soffice sotto di lei, «… e prendersi il proprio del tempo nel viaggio: forse è questo che a volte manca a chi, come me, cammina in cerca di qualcosa e spesso passa oltre, disperdendosi fino a sbiadirsi nel rumore… penso che rimarrò qui un altro po’, fin quando starò bene». Il fruscio del vento scavava nell’aria tutt’intorno a lei solchi in cui risuonava a tratti per poi allontanarsi, fino a perdersi in lontananza nella campagna assolata al di sotto della collina. Mentre il sole scendeva leggermente annunciando l’ora pomeridiana si addormentò lì, distesa nel suo luogo, in attesa di riprendere il viaggio una volta ritrovata la compagnia del mondo circostante su cui ora era appoggiata.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 3 Marzo 2022

Dino Campana e il tentativo di una poesia

La poesia che si respira nei Canti Orfici di Dino Campana è difficile, a tratti volutamente chiusa a chi tenti di avvicinarsi ad essa per comprenderla, provocandone l’allontanamento quasi intontito e con una punta di risentimento verso di lei. Provare a parlare di un’opera del genere, quindi, non è meno complicato perché – come per ogni scrittura abbastanza forte e gravida di pensiero da lasciare il segno – dà spazio a differenti e a volte opposte chiavi di lettura. Gradi di interpretazione che, inevitabilmente in ogni approccio critico, si differenziano a seconda dell’impronta di comprensione che ognuno di noi apporta all’opera sotto esame e da cui non è mai del tutto possibile separarsi: lo stampo in qualche modo della nostra specifica comprensione si imprime più o meno fortemente sull’impasto del testo che abbiamo di fronte, sui suoi concetti e sulle sue parole. Esercitarsi a imprimere meno forza possibile a un’opera è sicuramente utile, ma aprirebbe una discussione nella discussione che forse è meglio rimandare ad un ragionamento interamente dedicato al tema. Tornando a Campana, dunque, per conto di chi scrive la premessa è che di fronte a un testo dalle moltissime sfaccettature alcune sono quelle che, a mio avviso, risuonano più forti e inducono a una riflessione interessante.

Dicevamo all’inizio della complessità dei Canti Orfici, un testo che fa la spola tra prosa poetica e componimenti veri e propri, disegnando un cammino interiore e allo stesso tempo esteriore dell’io narrante che si snoda tra visioni allucinate e silenzi assordanti: dai cammini estatici nei passi di montagna alla dispersione tra i vicoli bui e popolati da demoni fin troppo umani di Firenze, Bologna e altre città narrate da Campana. La cosa che, forse, rimane più nella mente dopo aver letto interamente l’opera è la percezione di trovarsi di fronte a un tentativo rimasto in un certo grado incompiuto di dire una nuova poesia, una nuova musica da comunicare al mondo. Questo svilisce l’opera di Campana in sé? Tutt’altro, la rende ancor più interessante e carica di riflessioni proprio per il suo carattere di incompiutezza intrinseca. Incompiuto che traspare nonostante ci troviamo di fronte ad un’opera oggettivamente fatta e finita, che possiede un inizio ed una fine: eppure una volta sfogliata l’ultima pagina dei Canti resta in qualche modo quella sensazione di sottile irrealizzazione, di una misura non pienamente colma che fa durare l’inquietudine che traspare sin dalla prima riga. In che senso, dunque, l’opera di Campana può considerarsi incompiuta? Quali sono i significati legati a questa incompiutezza di fondo?

La poesia dei Canti Orfici è non finita, si potrebbe dire, tematicamente più che formalmente, data la struttura completa del libro che la raccoglie. Ce ne accorgiamo semplicemente per il fatto che Campana, come ogni poeta consapevole del suo ruolo nel mondo, a partire dalle prime pagine del suo lavoro esprime chiaramente come il suo sia un tentativo radicalmente profondo di andare verso una nuova poesia, di dire di più sul mondo ma accompagnato dalla consapevolezza di una sostanziale irraggiungibilità del tentativo stesso: «Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?»[1]. In un certo senso l’io che si appresta a scovare la fonte della nuova poesia sente sin dal principio su di sé come quella ricerca sia destinata a mancare sempre di una parte. Più il poeta si affretta sulla via verso la meta, più rimane e si allunga quella – a volte – pur minima distanza da essa finendo tra le ombre di uno spazio eterno: solo la nostalgia resta come simulacro del tentativo ogni volta fallito e frustrato per ogni sua riproposizione nel tempo e nello spazio della scrittura e dell’esperienza della stessa. A questo riguardo, le parole che Arthur Rimbaud spende a proposito della ricerca che il poeta intraprende sembrano assai allineate a quella che Campana affronta di per sé nei suoi Canti: secondo il ragazzo di Charleville, il poeta «[…] giunge all’ignoto, e quando anche, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà comunque pur viste! Che crepi pure balzando attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori, e rincominceranno dagli orizzonti in cui l’altro s’è schiantato!»[2].

Sotto questo punto di vista, allora, la difficoltà e l’inadempienza del tentativo poetico di Campana sono dall’altra parte della medaglia la riprova del valore, della necessità della sua ardua via: se il poeta, come Rimbaud, ha il compito di aprire nuovi spazi con il suo dire, di mostrare cose fino ad allora rimaste sotto lo specchio opaco della vista quotidiana degli uomini il suo fallimento, l’interruzione brusca del suo sentiero diventa allo stesso tempo l’impronta che altri dopo di lui seguiranno, disvelando man mano quanto scorto da chi è venuto prima, proprio come il poeta di Marradi. Il suo “schianto” lascerà così aperta la via ad altri: «Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attonito la grazia simbolica e avventurosa di quella scena»[3].

In questo schianto o ponte teso e poi ritirato verso l’infinito la poesia che ne deriva cerca di trovare una sua forma nuova. Così leggendo i Canti l’impressione è che, laddove i componimenti in versi veri e propri stentino di più, tanto nella comunicazione delle visioni del loro autore quanto nella figura che tentano di assumere – sintomo, questo, di una nascita poetica in corso in qualche modo ancora di là da venire – siano proprio le parti in prosa quelle a spiccare maggiormente. È infatti nella prosa poetica dei Canti che il tentativo di Campana trova forme e parole avvolgenti, a volte brevi illuminazioni che riempiono il senso della ricerca tra un cratere e l’altro lasciato nell’ombra del percorso. Lo si capisce dall’importanza assoluta che sembra ricoprire, nella prosa, la dimensione sonora: musicalità della sintassi, ripetizioni, assonanze etc. in un’orchestra linguistica che trascina il lettore nel viaggio abissale dell’io che lo percorre e lo canta. Sequenze di immagini e suoni si delineano vorticosamente: «Sulle spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un balzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle selvagge nell’ombra»[4].

A che scopo questo vortice in cui l’io di Campana si getta rischiando uno schianto polveroso? Lo si è visto prima con Rimbaud e ne abbiamo parlato, in parte, con Barfield ed Heidegger a proposito del ruolo della poesia qualche articolo fa (https://radurapoetica.com/2021/11/16/la-poesia-disvela-le-cose-alludendo/): il poeta disvela le cose, le riporta a chi ancora non può vederle, rischiando il sacrificio della propria parola per inseguire una melodia cui accordarsi lentamente: «Io fisso tra le lance immobili degli abeti credendo a tratti vagare una nuova melodia selvaggia e pure triste […]»[5].

La poesia aspra e oscura di Campana nei suoi Canti Orfici ci spinge così a chiederci cosa essa lasci per noi oggi, a ormai quasi un secolo di distanza dalla sua scrittura. Sono proprio le dolcezze improvvise e repentine che si nascondono tra le sue righe a dirci come la ricerca debba in qualche modo procedere, palmo dopo palmo, trovando e poi accettando subito dopo di perdere un momento di unità e comprensione per poi ritrovarlo ogni volta che l’ombra sia passata alle nostre spalle. Il tentativo, anche quando si infrange nel buio, non va mai perduto ma lascia spiragli che mano a mano arricchiscono chi li segue e li trattiene dentro di sé: «E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito»[6].

  • Paolo Andrea Pasquetti, 21 Dicembre 2021

[1] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, Garzanti s.r.l., Milano, 2002, p. 18.

[2] Arthur Rimbaud, Il poeta è un ladro di fuoco. Le lettere del veggente, L’orma editore srl, Roma, 2013, p. 41.

[3] Dino Campana, Canti Orfici, p. 12.

[4] Ivi, p. 15.

[5] Ivi, p. 14.

[6] Ivi, p. 73.

Mariangela Gualtieri e il gesto amorevole della poesia

A leggere la poesia di Mariangela Gualtieri si ha quasi sempre l’impressione di aver a che fare, probabilmente, con qualcosa di vivido e ben definibile al tatto, una corporeità delle cose narrate che in qualche modo sentiamo di poter percepire sulle dita, anche dal filtro lontano della pagina scritta. Forse perché il racconto che spesso si ritrova nella sua poesia parte sempre dall’esplicazione estremamente efficace di un dolore che sta ruvido sotto la pelle e monta e rincara ogni volta la sua dose, uno «stare chiusi al sangue, non volare»[1] che tuttavia non rimane un grido fine a se stesso: questo perché, al contrario di quello che spesso si incontra in una narrativa (poetica o meno) del dolore, quest’ultimo trova dentro di sé per l’io che scrive e lo dice la sua ragione di vita:

Grazie di questo piangere

senza il quale sarei una cosa secca,

immota.[2]

Il dolore, dunque, è ciò che in realtà scuote un’esistenza che si scopre ancora capace di sentire le proprie emozioni, specialmente le più sofferte: eppure è proprio in questa sofferenza che infatti il sangue si scalda e torna a scorrere tra le vene, a pulsare sotto l’impulso delle ferite interne od esterne che premono sulla vita, riportandola a un ritmo che ancora le permette di battere. Per dirla con Leopardi, insomma, «Il nuovo dolore in tal caso è come il bottone di fuoco che restituisce qualche senso, qualche tratto di vita ai corpi istupiditi»[3], e questo da il senso di una poesia consapevole della sofferenza che racconta perché riesce a percepirne il fine vitalistico ad essa intrinseco.

In questo ordine di cose si situa nella poesia di Mariangela Gualtieri la natura che, con la sua presenza fortemente intrecciata alle parole e alle immagini, assume il ruolo di un luogo dove trovare ristoro, ascoltare umilmente e imparare quello che avviene nel mondo, quasi come una cura a lungo rimasta sopita tra le trame vegetali o marine che ritorna ogniqualvolta l’io si appresti umilmente a chinarsi di fronte ad esse: «Inquieta andavo all’abetaia a portare il mio solito peso, e dopo la salita furibonda, dentro un riposo di scaricatore che ha finito, coccolata dalle antiche cime, non ero più in quel grumo inquieto […]»[4].

Così la natura, lo scorrere della vita pulita nel mondo riappacifica un’umanità scossa dal dolore – positivo, nel suo essere una spinta ad avvicinarsi e ricongiungersi alla prima – in un’ottica quasi sapienziale, nel suo insegnamento stabile e duraturo («[…] e insegni una legge / disgiunta, e reciti il mantra del mondo»[5]). Questo sembra portare lentamente, con i tempi dei cicli naturali, a quella cura che la poesia accoglie e fa sua tra le parole che la dicono: un medicamento caratterizzato dall’amorevolezza dei gesti e delle immagini del prendersi cura di sé, ritrovando la vita:

[…] ode

un tutto incompreso che calma

si accuccia nel calmo e guarisce

guarisce d’un alto guarire

scompare nello scomparire

e resta in quel pane

accolta, raccolta – lì resta.[6]

La caratteristica di questo gesto amorevole della poesia, della sua cura, è il modo con cui viene narrata, raccontata con parole del corpo («si accuccia nel calmo»), immagini dure o dense da poter toccare, sentire, assaporare e odorare («e resta in quel pane»). Questo avvicina alla sofferenza ora ricomposta e risanata, la fa sentire propria e condivisa nel mondo: una sofferenza che, s’è visto, viene narrata da parole ugualmente corporali, fatte di cose corpose al tatto e agli altri sensi nell’atto di istituire un solco comune tra dolore e gesto della cura proprio in virtù del ruolo del primo come motore di innesco della ricerca della seconda. In questo avvolgimento narrativo e poetico la natura sembra fare da tramite per entrambi, donando a chi decide di ascoltare la sua lezione antica la consapevolezza dei due concetti e le parole con cui vengono esplicati. Essa infatti non solo insegna la cura ma, prima ancora, la coscienza del dolore che necessita in ultima istanza la prima:

Oggi sentiamo il suo carico dolce

che un poco ustiona e un po’ canta

indolora innamora

e asseconda la danza battente

di tutto il sangue.[7]

L’immagine della natura, del mondo nel suo scorrere pone di fronte all’io il suo doppio insegnamento doloroso e dolce («indolora innamora») che trova espressione nella poesia che lo racconta. Così dolore e amorevolezza della cura coincidono e la seconda alla fine abbraccia e comprende, giustificandolo, il primo in un gesto che accoglie e dice ciò che può durare.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 25 Novembre 2021

[1] M. Gualtieri, Senza polvere senza peso, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 2006, p. 7.

[2] Ivi, p. 13.

[3] G. Leopardi, Zibaldone, edizione di riferimento in Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze, 1921; versione e-book tratta dalla serie Letteratura italiana Einaudi, 2000, 2160-2161. Si veda anche a proposito F. D’Intino, La caduta e il ritorno – Cinque movimenti nell’immaginario romantico leopardiano, Quodlibet, Macerata, 2019.

[4] M. Gualtieri, Senza polvere senza peso, p. 36.

[5] Ivi, p. 16.

[6] Ivi, p. 15.

[7] Ivi, p. 37.

La poesia disvela le cose alludendo

Quando prendo in mano un libro di poesia o, più raramente, provo a scriverla, non lo faccio mai per un semplice piacere di lettura o scrittura. Questa affermazione potrebbe correre il rischio di investire il rapporto che uno ha con la poesia di una carica morale, quasi religiosa e zelante, la quale spesso tenta (e a volte lo ha fatto rendendo le cose sin troppo confuse) di insinuarsi nei ragionamenti attorno all’atto poetico. No, nessuno zelo religioso o missione didattica-morale: semplicemente l’attestazione di quello che la poesia inevitabilmente contiene in sé al di là di ogni discorso che non voglia attestarsi sulla sola superficie del tema.

La poesia, dunque, è inevitabilmente una cosa seria. Perché ha a che fare direttamente con noi e il modo in cui ci relazioniamo con il mondo e chi lo abita, assieme allo spazio che occupiamo di solito nel nostro vivere. La cosa potrebbe sembrare una tautologia ma nasconde dietro, a una discussione più approfondita, tematiche le quali spesso chi si occupa di poesia tarda a porsi o lo fa solo a metà. La poesia è una cosa seria, dicevamo. Spesso è anche difficile, e questo può spaventarci nell’avvicinarsi ad essa, a coltivare un rapporto con lei nonostante le asperità sul cammino ma possiamo tenere a mente come viatico fedele le parole di Rilke: «[…] è il difficile che ci è stato affidato, quasi ogni cosa seria è difficile, e tutto è serio»[1]. La poesia è seria perché, al contrario della letteratura in genere, non ammette finzioni retoriche o compromessi d’autore: se infatti da un lato l’atto della scrittura porta sempre con sé, inevitabilmente, una parte ineludibile di finzione, dall’altro la poesia (quella vera) si trova curiosamente ad attestarsi, quasi senza averlo mai chiesto o cercato, in una sfera della parola puramente essenziale nel suo dire le cose. Questo è, detto forse in modo non così essenziale come il tema trattato, il discrimine fondamentale che separa la poesia di netto da ogni altro tentativo di scrittura esistente. Il suo esempio e contrario più noto e significativo è il romanzo: nessuna opera all’interno del genere romanzo, nessuna storia raccontata attraverso la sua forma può svilupparsi, evolversi e trovare una sua narrazione definitiva senza venire a patti con un certo grado di finzione che l’autore è costretto in qualche modo ad immettere all’interno della stessa. Questo perché il romanzo, come altri generi e tentativi letterari, è un atto di scrittura a posteriori che ha a che fare strettamente con un piano razionale ben definito: dei suoi personaggi, delle loro story-lines, del modo in cui esse vengono raccontate e suddivise attraverso le pagine etc. C’è dunque un grado di rielaborazione retorica, di riempimento di spazi vuoti tra eventi e allusioni – anche nel caso esse fossero le più sincere e aderenti possibili alla vita del loro autore o di altri – che una struttura “opaca” come quella del romanzo richiede e non le si può sfuggire, mai. Inutile pensare all’immagine romantica di un Kerouac (che chi scrive qui ama profondamente) che stende sotto effetto rapsodico di benzedrina in tre settimane sul suo celebre rotolo On the road, calando al suo interno le sue avventure personali con Neal Cassady in lungo e in largo per l’America di fine anni ’40: anche in quel caso, anche a credere sul serio all’evento leggendario della punta di diamante della beat generation, sono intervenuti per Jack pseudonimi, rielaborazioni di ciò che aveva vissuto, invenzioni e finzioni tra una riga e l’altra per completare la forma del romanzo che lo avrebbe consacrato alla fama letteraria mondiale: la differenza tra i suoi primi romanzi giovanili e questo (e i successivi) sta semmai nello stile che racconta una storia che è comunque frutto di un compromesso letterario e retorico, non nel liberarsi (completamente) di quel compromesso.

La poesia invece evita e salta per sua natura il compromesso che sembra legato ontologicamente alla natura della letteratura. Questo perché la difficoltà ossimorica della poesia, alla nostra comprensione spesso troppo razionalizzata dalle nostre strutture letterarie “romanzesche”, sta proprio nella sua esagerata, radicale e indiscutibile semplicità di fondo: la poesia ha l’unico e solo scopo di dire ciò che dice senza altro di mezzo, e questo alla nostra mente abituata a trovare un compromesso nella comprensione di noi stessi e del mondo circostante può risultare di una difficoltà – e paura, forse – quasi disarmante. Forse è anche per questo che, spesso, nella storia della letteratura, chi ha scritto poesia ha sempre faticato o evitato di scrivere romanzi o simili: se il poeta in tal senso riesce nel suo piccolo a cogliere e farsi interprete della natura radicalmente semplice della poesia, senza compromessi di sorta, può risultare estremamente fuori portata per lui ricondursi poi di nuovo tra le fila della finzione letteraria. Penso ad esempio al progetto mai portato a termine da Leopardi di stendere un suo personale romanzo, rimanendo invece profondamente legato fino in fondo alla parola poetica[2]. Questo come altri esempi potrebbero confermare la natura assolutamente non schematizzabile della poesia all’interno di categorie letterarie che, di solito, hanno buon gioco nel portare a compimento un’opera di scrittura che potrà sempre e solo in parte toccare la superficie dell’esistenza con mano: non che non lo faccia o lo faccia poco (se il romanziere o chi per lui ha talento) ma semplicemente non potrà mai farlo del tutto, anche al suo massimo grado di espressione; un buon 15 % (o meno, chissà) di finzioni e compromessi rimarranno sempre adagiati sul fondo del distillato che l’autore ha preparato per noi, anche con tutta la sincerità letteraria possibile la quale noi non potremo non tributargli e apprezzare gustandolo tra un sorso ed un altro.

Fatta questa necessaria distinzione, resta da chiedersi allora se la poesia abbia a che fare con categorie d’esistenza totalmente a parte rispetto al resto della letteratura. La risposta è di fondo affermativa, ma anche qui corriamo subito il rischio di cullarci nel sempre fascinoso ideale irrazionalistico della parola poetica: il poeta allora è un rapsodo che spegne il cervello mentre scrive, invaso dallo spirito del mondo come gli antichi? L’idea come detto è tanto affascinante quanto (se non falsa) perlomeno pericolosa. Se non altro perché la poesia trova la sua distinzione dalla prosa “ordinaria” (e in primis da quella del romanzo) proprio attraverso alcuni suoi precisi e identificabili mezzi tecnici e, quindi, razionali che hanno a che fare con l’ars e non solo con l’ingenium del poeta: scansione metrica, rima (per chi la usa), assonanze, enjambements, anafore etc. Ma allo stesso tempo questa tecnica ricercata dal poeta non cade sotto l’egida di uno stretto dogma letterario: non si scrive poesia solo in rima, appunto, né si usano per forza anafore o simili ma la ricerca di determinati mezzi tecnici ed espressivi che razionalmente il poeta insegue nasce dalla musicalità su cui la parola poetica si innesta, che non è – come per il romanzo – compromesso letterario dal quale non si scappa ma fondamento ontologico della poesia stessa. La poesia è una musica, un canto, che dice le cose nella loro pura semplicità, alludendo ad esse: è in questa allusione – spesso difficile, “oscura” ed ermetica ma mai priva di senso – che la poesia disvela ciò che dice.

Anche per il poeta, come per il romanzo, la scrittura può avvenire a posteriori dell’esperienza ma quel ritorno distaccato, razionale, sul nucleo vitale cui la poesia allude trova sempre il suo corrispettivo nel momento di puro e semplice disvelamento che la parola poetica dipinge di fronte agli occhi del poeta. Come scrive Owen Barfiel in Poetic Diction – opera che può essere presa, a mio avviso, quasi come un vademecum poetico e curiosamente non ancora tradotta qui in Italia – ciò che distingue il poeta moderno dal (rischioso, come detto) rapsodo antico è proprio questo intervallo che interviene tra il momento dell’ispirazione e quello più puramente razionale che avviene a posteriori: nel corso dei secoli secondo il filosofo inglese l’intervallo tra i due «mood»[3] si sarebbe ridotto sempre di più, creando un’oscillazione tra i due stati nella mente del poeta continua durante l’atto della scrittura. Questo ci dice che, in altre parole, nella poesia il principio puramente razionale e quello che qualche riga sopra definivamo semplice, essenziale nel disvelare le cose non giungono mai per la natura poetica stessa all’impasse che invece accade altrove nella scrittura: la funzione della poesia è di dire le cose, non di raccontarle attraverso forme fittizie frutto di compromessi con il reale. Le sue forme, la sua tecnica, sono al contrario frutto della sua stessa natura elusiva (verso la scrittura in sé) ed allusiva (verso il mondo e le cose).

Se allora la poesia disvela alludendo, ed evitando compromessi e finzioni, resta da chiedersi quale che sia il motivo di fondo. Difficile trovare una risposta ma non darla rischierebbe, di nuovo, di rimanere in quell’alone misterico non meno dannoso alla comprensione del tema. Possiamo prendere a prestito allora le parole di Heidegger, che meglio di altri si è avvicinato all’essenza della questione: «Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere […]»[4].

Il linguaggio, nella sua forma poetica, è il mezzo attraverso il quale l’essere, il mondo e le cose, trovano la loro vera e pura manifestazione davanti all’uomo. Il poeta dunque, di per sé, non inventa nulla in questo senso: ma ciò non va inteso come una diminuzione del suo ruolo nel mondo, quanto piuttosto come la vera essenza del suo poetare, ovvero disvelare attraverso la parola (per sé e per gli altri) l’essenza stessa dell’esistenza. Detto con le parole – non lontane sul piano filosofico – di Barfield, la poesia e il poeta che la scrive hanno il ruolo centrale di ricordarci «the before unapprehended relations of things»[5], che nel nostro cammino storico di estrema razionalizzazione abbiamo ben presto dimenticato. Se al tempo dei rapsodi antichi, o ancor prima, l’uomo per il filosofo inglese era davvero a contatto con le cose, nella sua evoluzione è intervenuto questo distacco tra principio poetico e principio razionale. In tal senso, è proprio e solo la poesia, negli innumerevoli tentativi dell’uomo di narrare con le parole il mondo e la sua vita, l’unico mezzo che riesce a correre parallelamente a quella razionalità fatta di finzioni e compromessi senza mai fondervisi: la sua forma è parte integrante del suo dire, non aggiunta a posteriori completamente separata dal suo nucleo centrale. In altre parole, e avvicinandoci alla conclusione, la poesia grazie al suo potere allusivo riesce in quello dove altri tentativi invece si fermano: svelare con estrema semplicità e chiarezza l’esistenza che abitiamo e lo fa attraverso una forma, una tecnica che, al contrario del romanzo o altri generi, è il ritmo, il sottofondo musicale attraverso cui avviene quel disvelamento ai nostri occhi.

Quando allora leggiamo o scriviamo poesia, non stiamo solamente coltivando un piacere estetico o culturale, o poetico di per sé: l’unico principio poetico esistente infatti è quello che riesce, in un modo che forse ancora oggi ci sfugge in buona parte, a metterci in contatto con ciò che ci disvela davanti attraverso le parole. Non sarà un mistero della fede o un atto magico, ma nella sua forma riconoscibile e concreta ottiene forse il loro risultato.

  •  Paolo Andrea Pasquetti, 16 Novembre 2021

[1] R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, traduzione di L. Traverso, Adelphi Edizioni, Milano, 1980, p. 31.

[2] Sul tema, rimando a G. Leopardi, Scritti e frammenti autobiografici, a cura di F. D’Intino, Salerno Editrice, Roma, 1995 e a F. D’Intino, La caduta e il ritorno – Cinque movimenti nell’immaginario romantico leopardiano, Quodlibet, Macerata, 2019, dove l’autore dello studio interpreta e ragiona in entrambi i testi sul rapporto tra poesia e romanzo per Leopardi, compiuto e incompiuto e sul significato della poesia per il poeta recanatese.

[3] O. Barfield, Poetic Diction, A Study in Meaning, Faber & Gwyer Limited, London, 1928. pp. 105-7.

[4] M. Heidegger, Lettera Sull’«Umanismo», a cura di Franco Volpi, Adelphi Edizioni S.P.A., Milano, 1995, p. 31.

[5] O. Barfield, Poetic Diction, p. 47.

2. La carovana delle ombre

Il fango sporcava le scarpe del ragazzo mentre gruppi di nuvole scure si allontanavano dal cielo, trattenendo nell’aria l’umido del loro passaggio. Dopo aver lasciato il vecchio proseguire per la sua strada verso il villaggio, esaltato dalla sua storia si era inoltrato nella vecchia foresta nella speranza di trovare il sentiero per la radura: dopo due giorni passati a vagare nel sottobosco tra sentieri sbaditi, a stento riconoscibili dal resto della vegetazione e dai cespugli di biancospino che costellavano il tappeto della foresta, aveva iniziato a disperare. Poi era arrivata la pioggia. La quieta immobilità autunnale degli alberi che tanto infondeva in lui un impasto di sensazioni a metà tra nostalgia e tranquillità si era rotta una mattina, appena sveglio, insieme allo scrosciare battente delle gocce d’acqua tra i rami. Non aveva potuto neanche stiracchiarsi un attimo dentro il sacco a pelo ancora caldo che dovette ritrovarsi a correre sotto la corteccia dell’albero più vicino, già completamente zuppo. «Dannazione…» pensò sottovoce nella propria testa mentre riarrotolava il suo letto di fortuna e metteva al riparo i suoi oggetti da viaggio. Cercava di rimanere calmo: in fin dei conti non poteva controllare lo scorrere del tempo, ma un temporale così improvviso dopo giorni perfettamente limpidi e quieti sicuramente non faceva che confermare i suoi sospetti sulla stranezza insita in quel luogo. Dopotutto il vecchio lo aveva avvertito, continuava a ripetersi nella testa mentre avanzava a tentoni nel sottobosco fangoso. Quelli che prima erano sentieri difficilmente identificabili ora si erano trasformati in un vero e proprio labirinto acquitrinoso nel quale l’unica cosa saggia da fare sarebbe stata fermarsi ed aspettare un’occasione migliore per proseguire. Il ragazzo però aveva ancora nel petto il fuoco guizzante della notte passata con quel misterioso vecchio, l’immagine dei due poeti e il grande albero della radura: voleva raggiungerla al più presto, non importava quanto ci avrebbe messo o quanta fatica gli sarebbe costata lungo il percorso. Sospirò profondamente, cercando di scacciare dalla mente i pensieri avvilenti sulla sua situazione e avanzò, affondando la scarpa destra in una pozza fangosa che non sarebbe stata di certo l’ultima del percorso che aveva davanti a sé. Dopo poco tempo e con molta fatica credette di riconoscere una pietra muschiosa che forse aveva già incontrato il giorno prima, e fece per superarla: il piede scivolò sul muschio umido alla base rocciosa e il ragazzo finì rovinosamente a terra tra il fango e le foglie appiccicose e bagnate. Il dolore della caduta gli tolse il fiato di colpo, e non riuscì neanche a gridare dal dolore o dalla rabbia: passati i primi attimi di sorpresa e stringendo i denti cercò di tirarsi su aggrappandosi con la mano destra fangosa sulla roccia infida, e non senza difficoltà tornò in piedi. Completamente ricoperto dal fango e dalle foglie maledisse se stesso e la propria cocciutaggine per essersi imbarcato in quell’avventura disperata, e si mise a sedere sconsolato sotto uno degli alberi dove l’erba non era troppo bagnata. Ora iniziava a odiare tutte quelle foglie che da secche nascondevano i sentieri da seguire e ora da bagnate erano diventate una coperta vischiosa e avvolgente per tutto il sottobosco. «Sto girando in tondo da giorni come un idiota alle prime armi…» disse sospirando con la voce ancora ansimante per lo sforzo. Poi appoggiò la testa sul tronco dell’albero dietro di lui e chiuse gli occhi stanco, mentre il fiato usciva fuori dalla bocca disperdendosi in vapore nell’aria circostante immobile dopo l’acquazzone improvviso. Non seguì più il filo dei suoi pensieri e tutto divenne buio, sprofondando lentamente in un sonno umido che sapeva di muschio e foglie bagnate, quasi allucinato dagli odori della foresta piegata al vento che stava portando via le nuvole una ad una. In quel momento una goccia staccatasi da un alto ramo sopra di lui cadde sulla sua fronte: il rimbombo di qualcosa caduto dentro un lago limpido riempì la sua mente accanto all’oscurità che circondava il suo corpo di sogno tra lo scorrere delle ore diluite nel tempo. Si agitò convulsamente mentre dormiva, incurante del fango e delle foglie che lo ricoprivano nel mondo esterno. Poi i suoi passi riecheggiarono nell’acqua bassa del lago, muovendosi lentamente nel buio della visione. Proseguendo iniziò a percepire davanti a lui la presenza sbiadita di qualcosa di antico eppure allo stesso tempo vigoroso e d’un tratto una foglia verde, staccando col suo colore nell’oscurità, svolazzò davanti a lui portata da una brezza leggera e tiepida, intrisa dei profumi delle campanule. Mentre si avvicinava, il ragazzo la guardò dapprima stupefatto, poi una volta davanti ad essa fece per scansarla con la mano: in quel momento nel tentativo di muovere il braccio si sbilanciò in avanti, mentre l’odore sottile e confortevole svanì di colpo accompagnando la sua caduta rovinosa nell’acqua, improvvisamente gelida e profonda come l’abisso dei ricordi di generazioni innumerevoli. Urlò disperato con l’acqua fin dentro la gola, ritrovandosi di nuovo disteso sotto l’albero della foresta dove si era addormentato ricoperto di sudore, dal fango e dalle foglie mentre tutto attorno a lui giaceva nel silenzio di una mattina abbandonata da poco dalla pioggia.

Era ormai mezzogiorno quando il ragazzo si ricongiunse alla via maestra che passava nella parte più esterna e rada della foresta, dove aveva parlato con il vecchio in un tempo che ormai gli sembrava appartenere ad anni lontani. Cercando di non pensare ad altro si rimise lentamente sulla strada verso il villaggio che sorgeva tra le pianure: con una giornata di cammino a buon passo sarebbe giunto al più presto da dove era partito e avrebbe potuto rifocillarsi e recuperare le forze, prima di lasciare la regione. Il sogno che lo aveva portato tra quei luoghi, chiedendo di casa in casa tra i contadini del posto in cerca di vecchie storie su una radura nascosta nell’antica foresta lì vicino e sulle leggende che aleggiavano attorno ad essa sembravano aver lasciato ormai il passo alla delusione cocente. Tanto valeva non pensarci più e tornare indietro: ci sarebbero stati altri luoghi da visitare, altri sentieri dove cercare le parole che inseguiva da tempo. O forse, iniziava a pensare appesantito, bisognava lasciar andare per sempre le parole e la via da loro tracciata, rinchiudersi in un angolo di mondo abituandosi ad altro. Pensò alla bottega di famiglia in città dalla quale era fuggito carico di speranze e desideri: forse adesso tornare e seguire la strada che i suoi genitori avrebbero voluto per lui non sarebbe stata una sconfitta, ma un reale ritorno alla vita tra tutti gli altri. Eppure, mentre pensava con convinzione sbiadita a quelle cose, pulsavano con forza nella sua mente le immagini della visione boschiva di qualche ora prima. Quella foglia danzante nel buio continuava a tempestarlo, portando con sé ogni volta il suo odore forte e allo stesso tempo leggero delle campanule. Si sentì tremendamente in colpa per aver scacciato quella foglia sottile nei propri sogni, aver forzato la mano credendo di sapere e poter afferrare i propri lampi di parole che pensava di aver davanti, cedendo dentro il suo sentiero a una mente opaca e tagliente che non credeva di possedere. Salirono ai suoi occhi lacrime di rabbia e vergogna mentre proseguiva verso sud-est, e avrebbe voluto gridare per sfogarsi calciando i sassi sul proprio cammino quando sentì, portato dal vento, il rumore non toppo lontano di ruote e zoccoli sulla terra battuta della strada. Su quella via non molti erano i viaggiatori e non meno interessanti i motivi dei loro viaggi; perciò, il ragazzo decise di aspettare al lato della strada il passaggio di chi si stava avvicinando lentamente. Il rumore crebbe e si fece ben definito, nello sferragliare delle ruote di carri attutito e avvolto dal silenzio della foresta tutto intorno, assieme agli zoccoli di cavalli che lentamente si portavano in avanti tra gli alberi. Mentre il ragazzo attendeva incerto sul ciglio della strada sentì il rumore indistinto e vacuo di alcune voci che richiamavano gli animali, e dalla svolta della strada che si trovava davanti a lui venne fuori lentamente un carro avvolto da spesse tende grigie trainato da cavalli neri, seguito da altri tre carri quasi identici a formare una piccola ed ordinata carovana che procedeva placida lungo il sentiero della vecchia foresta verso nord. Incuriosito dalla lenta processione di quei carri, il ragazzo rimase fermo dove si trovava in attesa che la carovana passasse di fronte a lui. Fu in quel momento che, ormai a pochi metri di distanza, notò che sedute alla postazione di guida dei carri stavano figure avvolte in vesti di un grigio che non avrebbe saputo ben definire: a volte sembrava perdersi nel nero delle ombre proiettate dalle fronde degli alberi sopra di loro, altre volte si diluiva nel bianco opaco del cielo ancora non del tutto schiarito, illuminato da una luce malsana mentre il sole stava ancora nascosto nella foschia. Le figure parevano immobili alla guida delle briglie dei cavalli di fronte a loro e non sembravano essersi accorte del viandante al lato della strada quando, d’un tratto, una delle due sedute nel carro che faceva da apripista con una voce tenue e indistinta comandò ai cavalli di fermarsi, forzando leggermente la briglia mentre accostava il mezzo di trasporto di fronte al ragazzo che osservava confuso la scena. Uno degli animali sbuffò vigorosamente nell’aria, incurante della nuova persona al suo fianco. «Dove avanzi da solo e malridotto per la vecchia foresta?» sentì il ragazzo provenire con voce monocorde dal carro. Restò quasi irretito dal tono della figura incappucciata sopra di lui: non un’incrinatura nella pronuncia, ma allo stesso tempo non destava alcun piacere all’ascolto; semmai essa sembrava svanire in un rumore man mano indistinto che lasciava dietro di sé inquietudine e dispersione. Senza guardare sopra di lui il ragazzo rispose debolmente «… ero in cerca di desideri e speranze sempre sognate, ma sembra che in realtà ci sia ben poco da trovare tra questi alberi». Ci fu un attimo di silenzio seguito solo dal vento che debolmente soffiava tra i rami attraverso il cielo opaco. «Forse hai sbagliato il modo del tuo cercare…» fece la voce. Il ragazzo sentì montare dentro di sé la rabbia ancora cocente e guardò sopra di lui stizzito. Le parole gli morirono però in gola: davanti a lui stava incappucciata una figura che sembrava priva di un volto, avvolta nei suoi panni grigi e indefiniti mentre inondava l’animo del ragazzo di un vuoto insopportabile. Si voltò stordito in cerca delle altre figure e notò con angoscia la stessa vacuità avvolta dai loro cappucci grigi. «Cosa cerchi dentro di noi, giovane?» riprese la voce monocorde della figura che lo aveva interpellato poco prima. «Ben poco in noi puoi trovare, ben poco è rimasto» continuò pacata. «… Cosa siete?» riuscì a dire con la voce corta il ragazzo continuando ad osservare le figure attorno a lui. «Solo ombre di quello che eravamo un tempo. Umani, come te… ma una vita passata a lungo e irrimediabilmente nel mentire a sé stessi, nel non vivere realmente le cose ha portato man mano a logorare i nostri contorni, far svanire i nostri volti e i nostri corpi in un vuoto che a stento riconosceresti, se non dopo un lungo guardare».

«Come può accadere questo…»

«Se getti via chi sei dentro e incanali la tua vita dietro parole e gesti di altri perderai anche chi sei fuori prima o poi, giovane»

«È davvero possibile? Ed è grave?»

«Sì, molto»

In quel momento, osservando meglio, al ragazzo parve di scorgere dei lineamenti sbiaditi all’interno del cappuccio con cui stava parlando. Si concentrò più a lungo su quella figura: ora pian piano riusciva ad intravedere degli occhi dallo sguardo perso contornati da rughe di un corpo che un tempo era stato carne; accanto una bocca stanca che pendeva in attesa sul volto di un adulto segnato dai giorni e dalla fatica dei suoi viaggi. «Sì…» fece la bocca affaticata, «… ora ci vedi meglio per quello che siamo e che eravamo, ma ormai è tardi per noi: ciò che prima era autentico è stato perso per sempre». Il ragazzo guardò incerto negli occhi svuotati dell’uomo d’ombra: «Come riuscite ancora a muovervi nel mondo allora?».

«Sopravviviamo… in mezzo a una folla, tra gli sguardi disattenti e superficiali dei passanti non ci riconosceresti mai. Solo fermandoti e osservando come te puoi scorgere qualcosa…»

«Per questo siete in viaggio?»

«Siamo sempre in viaggio, da una città all’altra per poterci sostentare senza essere visti, senza essere considerati dagli altri… sulla via raccogliamo man mano alcuni che come noi sono svaniti perché hanno abbandonato del tutto loro stessi per vivere senza concretezza, formando una lenta carovana di ombre senza punto fermo»

Il ragazzo rimase silenzioso per qualche momento mentre osservava la carovana delle ombre davanti a lui. Ripensò alla sua rassegnazione verso ciò che cercava da tempo, la sua idea di abbandonare tutto quello che per lui importava per dedicarsi ad altro, solo per far svanire la sua sconfitta dentro una vita lineare ad attenderlo a casa. «… E se ciò che uno pensa rappresenti se stessi risulta troppo difficile da trovare? Non significa forse che quel qualcosa non esiste o non fa per lui e dovrebbe scendere con i piedi per terra?». L’ombra dell’uomo lo guardò con vago interesse. «Forse è così… ma non penso lo sia per te, non lo vedo dai tuoi occhi. Forse il tuo modo di cercare te stesso, ciò che ti cova dentro, è sbagliato, ma questo non posso saperlo… ma se credi davvero il tuo sentiero sia sbagliato, puoi unirti a noi fino alla prossima città a nord, o anche più a lungo…» fece l’ombra. «No», rispose seccamente il ragazzo, «credo che continuerò per la mia strada verso il villaggio in pianura: lì saprò forse cosa fare».

«Allora sappi questo: non puoi vivere per sempre all’ombra dei tuoi giorni in questa vita. Il cammino ti si stende davanti tra gli alberi e il vento che soffia altrove, e solo tu puoi sapere la direzione dei tuoi passi e se davvero questi battono il terreno vicino alla tua anima»

«Cercherò di tenerlo a mente… anche se ora non mi è chiaro il modo»

«Non avere fretta, torna al riposo e ascoltati…. ma non smettere di farlo finché non avrai ripreso a cercare, o l’ombra farà svanire i passi che hai tracciato finora e ti nasconderà quelli che ancora hai davanti a te»

La figura diede un colpo pacato e impercettibile alla briglia che teneva in mano mentre finiva di parlare. I due cavali sbuffando iniziarono a muoversi lentamente e dopo pochi attimi lo sferragliare delle ruote sulla strada riprese il suo lavoro sonoro. «Addio allora» disse il ragazzo con qualche sicurezza in più nella voce. «Addio giovane. Possa tu trovare quello che cerchi e ricorda che inevitabilmente incontrerai l’ombra: starà a te attraversarla o farti attraversare da essa». La figura si voltò verso la strada lasciando dietro di sé e dentro il ragazzo un senso ancora più forte di vuoto, insieme all’enigma con cui si era congedata lentamente sulla via che li aveva fatti incrociare. Rimase ancora qualche tempo in contemplazione sul ciglio della strada scostando la terra umida da sotto i suoi piedi. Mentre il rumore dei carri si allontanava sempre di più, alzò il volto verso il cielo, odorando il vento tiepido che iniziava pian piano ad asciugare il mondo circostante. A sud-est, dietro le cime degli alberi, si intravedeva l’azzurro infilato dal sole limpido che iniziava a schiarire anche verso la foresta. Fece una smorfia, contratto nella sua mente tra le domande che aveva prima di iniziare il suo cammino e quelle affiorate ora che aveva deciso di interromperlo, e mosse un piede nella direzione scelta. Tra gli alberi, intanto, le chiome fischiavano silenziosamente al ritmo del vento, e ricoprivano il mondo intorno a lui di sentieri ancora da trovare.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 7 Ottobre 2021

Tre poesie da L’uso delle parole e delle nuvole di Irene Marchi

Fatti nuvola

Il tempo t’insegnerà

a essere nuvola:

cambierai forma nel vento

senza aspettare

il tramonto

per sentirti colore.

   

Fatti nuvola

per sfiorare gli alberi

per vedere meglio ogni cosa

per sorridere nel buio

   

e fatti nuvola – se vuoi –

anche per piangere.

* * *

Lezioni di punteggiatura – I

Mi chiedi come farti capire, tu,

impacciato e acerbo di scrittura

– tu che l’ami e glielo vuoi scrivere –

quali parole? quali pause?

   

Posso dirti poco,

temo che l’amore

non conosca la punteggiatura

– e neppure l’educazione –

   

ma ho sentito dire che una virgola

a volte è un punto fisso

reso incerto da una lacrima.

I due punti invece non hanno dubbi:

   

due punti

e tutto diventa chiarissimo

come un bacio improvviso

appoggiàti a un muro.

   

Perciò, se sei sicuro, prova con

Volevo dirti questo: ti amo

– e lascia perdere gli esclamativi.

Ne riparliamo alla prossima lezione.

* * *

Nudi

A terra gli abiti

e tutte le definizioni

– salirà il vento che strappa la paura –

balleremo sopra le distanze

rideremo dentro agli occhi:

solo nude

le anime si possono parlare.

* * *

Irene Marchi  attraverso i suoi componimenti sembra dar forma ad una poesia in qualche modo dialogica. Nelle poesie tratte dalla raccolta L’uso delle parole e delle nuvole (Cicorivolta Edizioni, 2020) infatti si intravede un dialogo interiore con un tu tra sentenze, domande e risposte puntuali, costruendo un gioco di scambi dialettici da un verso all’altro e utilizzando in maniera efficace spazi di sospensione del discorso che si incastonano tra i versi in successione tra di loro, come a ribadire il proprio dialogo con se stessi o l’altro a cui si tende.

Tra l’utilizzo ora di assonanze ora di anafore, spicca la tensione a costruire strofe dai tempi e dagli spazi contratti, quasi ad alludere a qualcosa lasciato in sospeso e ancora da trovare dietro di sé. C’è così la ricerca di comprendere l’amore di un noi alla fine, la sofferenza quotidiana che a volte sembra accompagnarlo, attraverso forme e parole diverse da sperimentare ogni volta per scoprire poi come dietro il ricongiungimento agognato si nasconda la più nuda semplicità: in essa non servono troppe parole e si può lasciar alludere alle cose senza più provarne la mancanza.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 29 Settembre 2021