Tre poesie da Il tuo sacerdote di Gian Piero Stefanoni

Esodo

È storia ora di vocine,                                                                                                          

di piccoli alberi abbattuti dai nidi,                                                                                         

di sottocolpi scanditi tra fratelli.

   

Avevamo dimenticato il fiume,                                                                                            

pensavamo fosse salda la barca                                                                                                 

nascosta nella pelle ogni distanza.

   

Ma di questo si nutre la plancia                                                                                           

nella scorta delle offese residue.

   

Chi cerca il timone vede la costa,                                                                                          

non sente i colpi che dietro                                                                                                   

si affollano dai pesci.

* * *

Il mio sacerdote

Esce tra i banchi cercando qualcuno.

Ha sentore di pietra composta nel legno.

   

Dove è buio è solo l’uomo,                                                                                                          

teme d’esser venduto; ha davanti                                                                                                                    

una domanda di pane, una città che muta                                                                                                  

entro una strana apostasia di pensieri.                                                                                              

   

Qui resta il mio sacerdote-                                                                                                                 

e ricomincia- al collasso della parola.

    

Perché ogni mano è stata sulla croce                                                                                              

nella divina follia del creato.                                                                                             

* * *

La terra

La terra è questa e non muta                                                                                                  

e povertà nega l’amore                                                                                                                     

ma Cristo crede e resta nella carne,                                                                                                               

Cristo crede ed eccede; spezza                                                                                                       

di nuovo il pane, versa ancora da bere.                                                                                                                        

   

Ha desiderio di noi- e fede-                                                                                                                                        

la contrazione che presiede al travaglio,                                                                                                                                        

l’atto che nasce da quel volto.                                                                                                              

   

Non rompe né spiega la fedeltà                                                                                                      

l’ordire sulla soglia, la leva                                                                                                              

senza nome della morte.

* * *

Nei versi di Gian Piero Stefanoni, tratti dalla raccolta Il tuo sacerdote (2022, dal blog La poesia e lo spirito), il ritmo si contrae in gruppi ristretti di versi, di strofa in strofa, quasi a singhiozzo. In tal senso, la particolare scansione musicale del verso sembra mimare quel collasso della parola che l’io canta nel suo racconto poetico dove, sotterraneamente, voci minute narrano la storia che nel frattempo accade legando strofe e versi dall’uso ripetuto e cesellato di assonanze.

È un mondo, una terra, quella descritta immutabile e caotica all’interno della quale l’io-Everyman si muove al buio tra pietre e legni duri e freddi che rimandano ai colpi subiti sul sentiero multiforme intrapreso: dentro di esso l’uomo porta con sé una domanda inesaudita e dimenticata mentre naviga a vista sulle maree terrestri. Tuttavia, è qui che si innesta una fede all’interno della quale riposa un riscatto, una risposta che eccede sempre la richiesta e la domanda stessa dell’uomo in un conforto: essa non spiega le sue ragioni ma ristora, riaccendendo all’interno di sé un mutamento che gridi alla storia.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 6 Dicembre 2022

Tre poesie da Recupero dell’essenziale di Michela Zanarella

Fidarsi della luce che ritorna

Fidarsi della luce che ritorna

nello stesso tratto di cielo

darsi appuntamento tra le curve della luna

i sogni nel mezzo l’alba con la voce di un’attesa

trovarsi a rovistare silenzi tra residui di stelle appena la

notte si congeda

poi schiarire memorie e puntare il cuore dritto al sole

come se fosse la rotta di una meta sicura

chissà se l’amore percorre lo stesso sentiero di giorno

e ogni gesto è la copia fedele di ciò che pulsa al buio

sopra le nuvole

magari il posto dei nostri abbracci non cambia.

* * *

Gli echi della vita già stata

Arrivano a raffica sparsi

gli echi della vita già stata

stanno sotto protezione degli astri

le volte che ci siamo amati

con tutta la volontà delle ossa.

Mi fanno visita scalzi i ricordi

dall’alto di un silenzio che conosce il resto

di una notte tanto vicina quanto lontana.

Si è decisa a ritornare la stessa luna

che ci aveva abbagliato gli occhi

è venuta a dirci che per luglio

dovremo stare in ascolto della ginestra

dovremo riabituare il corpo

ad uscire dal tempo

l’estate è sulla punta della memoria

non si scosta dalle eternità pronunciate.

* * *

In qualche mondo

In qualche mondo

la distanza di terra, aria, pensiero

diverrà neve calpestata, luce respirata dallo stesso lato

alba che sa guarire le sbarre di un confine.

Avranno dimore così vicine le nostre esistenze

che sarà sufficiente tenere l’andatura del sole

tra le piante di tè.

Potrebbe accadere che l’orizzonte chieda

di avvicinare più germogli alla luna e che una notte remota

acconsenta.

La vicinanza è un’alba annunciata sopra un corpo di stelle

che sfocia tra rami d’argento.

* * *

Nelle sue poesie, tratte dalla raccolta Recupero dell’essenziale (Interno Libri  Edizioni, 2022), Michela Zanarella fa uso di una rarefazione della punteggiatura portata, a volte, quasi allo stremo dove però il ritmo, l’andamento sintattico di un verso dopo l’altro sono dati dalle numerose assonanze poste alla fine dei versi stessi. C’è, dunque, un fluire riconoscibile dato dai suoni delle parole che si legano le une alle altre formando, di conseguenza, un sentiero attraverso il quale il racconto poetico può distendersi.

È nella narrazione che, infatti, emerge con chiarezza il tema della memoria di sé e degli altri che ruotano attorno ad esso e, accanto (o meglio, sopra) a questo, l’elemento celeste tra le sue varie forme (dal vento alla neve), i suoi momenti (dall’alba alla notte) e i suoi attori principali (il sole, la luna, le stelle).  Così, ogni ricordo dal quale scaturiscono immagini narrate si lega metaforicamente – ancor prima che visivamente – al cielo e, soprattutto, alla sua luce che sembra allungarsi e toccare i ricordi terrestri. Non importa se questa luce sia notturna o diurna, quanto piuttosto come la sua tangibile presenza ribadisca una sorta di continuità con degli spazi superiori percepiti come eterni e ad i quali ispirarsi, per i quali nutrire una ricongiunzione che nel qui-e-ora dell’io poetico è annunciata ed allusa, nel frattempo, dalla parola. In questo senso, allora, il sentiero terrestre narrato dalla pagina alza costantemente lo sguardo sopra di sé, nell’attesa di un parallelismo che si risolvi in una fusione.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 22 Novembre 2022

Tre poesie da Affreschi strappati di Giuseppe Settanni

la ragnatela appesa al ramo del castagno

e i capelli genuflessi

   

il passaggio è aperto ma

sembra un’arpa in decomposizione

ammutolita dal troppo rumore

   

la bocca si è sciolta tempo fa

nei vigneti di mio nonno

bruciati dalla fatica

   

un invito

a cui ora non so più rispondere

* * *

dovevi soffocarla nel sogno

la tua metà imprecisa

   

evitare il contagio

ti sembra poco?

   

il platano davanti a te

ha una cavità:

potresti nasconderti

in quello spazio umido

* * *

più di quanto io riesca

a deglutire

con i denti insanguinati

   

il corridoio, una scia che va

e viene

tra odori fecali e scissioni

   

a una cicatrice di distanza

dall’ultima salvezza

   

il cloroformio affama, afferra

con artigli da simulatore

   

limitare i danni

   

appassirsi

* * *

Nella poesia di Giuseppe Settanni – con suoi i versi tratti dalla raccolta Affreschi strappati (Edizioni Ensemble, 2022) – emerge chiaramente, tanto sul piano sintattico quanto su quello estetico, una tensione alla disgregazione formale e lessicale, al disperdersi nello spazio bianco del racconto poetico che mima così la dispersione interna dell’io il quale, inevitabilmente, si ritrova ad usare parole che fanno da eco a questa realtà interiore frammentata. In maniera interessante, ogni “frammento” da cui il singolo testo è composto evoca, attraverso l’uso di parole concrete tra aggettivazioni forti e termini specifici, immagini ruvide e tuttavia fortemente evocative: una sorta di isole di eventi a sé stanti che la parola poetica raggiunge saltando da una riva all’altra, da una strofa a quella seguente per annotarne, tuttavia, il loro rimanere all’interno di un medesimo arcipelago narrativo che allude ad una sua voce e continuità propria.

Sfruttando la brevità dei versi, il ritmo che ne consegue risulta conciso e scandito con forza da ogni interruzione narrativa: il risultato è una serie di sentenze poetiche narranti che, seppur nella loro concisione, riescono a rimandare il lettore a spazi di senso ulteriori da approfondire. In questi paesaggi di parole disperse sembra, nonostante tutto, rimanere aperto un passaggio per una ricomposizione che, però, è ancora di là da venire: la voce e gli strumenti del canto sono, appunto, disgregati e non possono accoglierne l’invito a proseguire. Forse la durata riposa nel ritmo che ancora, lievemente, lega tra di loro le parole dell’io.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 9 Novembre 2022

Tre poesie di Doris Bellomusto

Molte cose

Molte cose

sono immanenti e fragili,

senza radici

fluttuano nel tempo

che non hanno,

finiscono prima di iniziare,

iniziano con impeto

e sono anelli perfetti,

cerchi chiusi,

circonferenze morbide

senza angoli né spigoli.

Queste cose accarezzatele piano

come fossero un cane

bastardo

testimone d’amore e solitudine.

* * *

L’ora delle cose impossibili

Se mi cercate,

sono nascosta

fra le lettere del mio nome

che nessuno pronuncia mai

per intero,

questo nome che mi spaventa a morte

quando si stende dalla prima all’ultima lettera, perché non sembra mio

e mi sembra così stanco da voler sparire.

Sono nel vento che asciuga capelli e lenzuola;

nella mia fantasia infeltrita,

sulla punta della lingua,

pronta a sciogliersi in

baci

e parola

per chiedere alle nuvole che ora è.

È l’ora delle cose impossibili.

* * *

Tityrem tu patulae

Tityre, tu patulae

recubans sub tegmine fagi

spezzo il verso

come fosse pane

e fra me e me mi pasco

di nuvole, prati e briciole di pane,

quelle che raccolgo

nel silenzio della sera.

Come pane duro fra i denti

mastico forte il tempo che fugge.

* * *

Le poesie di Doris Bellomusto si caratterizzano sin da subito per i versi spezzati e irregolari che le costituiscono, quasi a mimare la ricerca affannosa delle cose che canta l’io attraverso il racconto poetico che avanza a singulti e, tuttavia, resta legato da un ritmo che trova la sua coerenza interna tra ripetizioni lessicali e parole derivate inanellate con decisione l’una dietro l’altra. Così, ogni verso suona ben scandito dall’uso mirato e misurato delle pause sintattiche mentre si accorda, nel frattempo, alla musica, ai suoni lessicali di quelli che lo precedono e lo seguono.

Attraverso questa costruzione poetica spicca, come accennato, la ricerca da parte dell’io – che utilizza la stessa, implicitamente, per raccontarsi – di una vicinanza assoluta, tattile e verace con le cose del mondo esterno per trovare una comunione con esse. Da qui dunque il “gioco” della poesia nel senso stesso del lusus (come quello con la citazione dei versi virgiliani) attraverso le cui parole, i cui espedienti retorici (su tutti, la similitudine spesso a chiudere visivamente con forza il singolo componimento) poter dare consistenza, corporeità a quelle cose percepite forse come sfuggenti e incorporee tra le proprie dita. Così, la parola poetica rassicura sulla loro esistenza e, di riverso, su quella di chi utilizza la poesia stessa per confermarsi all’interno del mondo.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 14 Ottobre 2022

Tre poesie da La vita là fuori di Mariapia Crisafulli

L’alter

Ti lascio i miei volti

rubati in stazione

Tutto l’umano che conosco

e possiedo

sta lì

   

Se impari ad amarmi

è perché ami loro

Se imparo ad amarti

è perché ho amato in loro

la trascuratezza

che il mondo riserva

nel rincorrere

i treni

in quelle mattine

uguali alle sere

[buie e fiacche

   

Hai mai visto qualcuno dormire

su un treno? – Sì che l’hai visto –

Ma il chiacchiericcio dei suoi pensieri,

il peso dei sogni interrotti

(dalle sveglie, nelle fermate…)?

   

Questo ho scoperto nei volti

dispersi e ammassati

tra le banchine e i sottopassi

in cui usuro le cicche

   

E questo ti lascio

mentre ti stringo

se ti sento annegare

mentre mi stringi

e mi scopri sfiorire

nella corsa dei giorni

* * *

La misura delle cose

La storia si conta per secoli

La vita per decenni

   

E i giorni per cose fatte o da fare

E le notti per occasioni consumate

o perdute

   

Le poesie si contano per fogli sparsi

come le case per finestre accese

in attesa di un ritorno

o intimando un addio.

* * *

Constatazioni

Potrei cantare le visioni dei vivi

i presagi che i morti sussurrano loro

aprendogli il varco dall’altra parte

   

Ma la mia mano è ferma

e il mio sguardo veglia sulle cose

che tocco e respiro

   

I morti mi vivono dentro e mai accanto:

viviamo qui insieme

[nessuno muore ancora

   

Là fuori c’è solo la vita

* * *

Le poesie di Mariapia Crisafulli, tratte dalla sua raccolta La vita là fuori (Macabor, 2021), si palesano attraverso versi spesso irregolari che mimano un andamento alterno e avvolgente mentre l’io, da dietro le parole, distende il suo canto man mano. In questo percorso metrico, tra una strofa e l’altra, molta attenzione è riservata in maniera chiara e precisa alla musicalità che scorre nei componimenti stessi: in particolare l’uso di anafore e altre ripetizioni dà luogo a un ritmo cadenzato, a volte quasi rituale mentre si aprono davanti agli occhi del lettore le immagini evocate dalle parole. A completare il canto, le varie rime e assonanze inserite spesso negli spazi tra i versi dove si muovono i punti significativi della narrazione poetica, aumentandone così il climax ed esaltandone il senso.

All’interno di questo racconto emerge con forza e delicatezza al tempo stesso la ricerca di una presenza amata attinta tuttavia a partire dalla sua assenza: essa non sembra coincidere con un solo punto focale della vita, con una sua singola entità, ma con la vita stessa mostrandosi come ostinata resistenza a uno scorrere del tempo, dei giorni, avvertito con ansia attraverso immagini sia quotidiane sia di una storia più generale e umana. Così, anche la morte che emerge da tempo rimane all’interno e non accanto mentre l’io aderisce ancora alla vita toccandone le cose: c’è ancora un sentiero da seguire, mediato dalla poesia, dove trovare un ritorno.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 29 Settembre 2022

Tre poesie di Simone Migliazza

Al centro dell’estate, nel calore,

s’é fatto asciutto d’un tratto il parlare

delle cose: la casa, il mare, gli alberi

non dicono che sé stessi. Aderire

alla vita ha un prezzo di silenzio: vivere

e basta, semplicemente. Solitudine

insondabile, estranea mia ombra.

* * *

É già tempesta ai monti. Un borbottare

si fa strada in città, sui tetti e i muri

s’allunga un’ombra. “È morta. La sorella

di Anna, dico. É morta”, fa una voce

per la via. Si perde la risposta.

Fare cose da vivi, con del pane

e pomodori mangiare. Non serve altro.

* * *

È indaffarata una mosca a ronzare

dentro casa, di tutto s’interessa:

pareti, costole di libri, piatti

lasciati ad asciugare. Inesplorato

mondo il mio vivere ordinario, dove

grattare via la carne dalle ciotole

dei gatti a lei sa quasi d’eldorado.

* * *

Nelle poesie di Simone Migliazza spicca sin da subito l’attenzione per le cose “minute” del vivere quotidiano che, cantate dalla poesia, riescono nel loro tentativo di non dire altro che sé stesse, trovando un’efficacia del loro stesso significato di fronte all’io che le osserva proprio grazie alla loro semplice, asciutta ed essenziale presenza che resta lì, ineludibile. Questa efficacia dell’essenzialità del dire poetico si rispecchia, formalmente, nella costruzione dei versi stessi: il ritmo è scandito in modo certo e puntuale da un uso deciso della punteggiatura che, delineandosi man mano, dà luogo a brevi frammenti quasi, sentenze che si susseguono l’una dietro l’altra in maniera ordinata.

Tuttavia, lo stesso uso non casuale di assonanze e rime crea un collante, una linea unificatrice per ogni singolo pensiero poetico formando un canto che, appunto, trova una sua unità narrando le cose semplici e immediate attraverso un io che sceglie con cura ogni singola parola per mantenere viva la loro efficacia di senso. Così, le cose stesse della quotidianità narrata trovano un’unità tra di loro, un significato ultimo che le parole sembrano suggerire e indicare a chi sta loro di fronte, in attesa.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 21 Settembre 2022

Tre poesie di Valentina Cottini

Disaccolgo

io non sono resistente non sono un corso d’acqua non corro lo stesso oltre l’ostacolo ricavandomi un nuovo sentiero io sono

la diga

sono la diga e talvolta l’acqua ferma

e sono così stanca della narrazione

reticente

della retorica delle donne

resilienti

io sbaglio taglio mi pento mi dolgo dei miei peccati

perché peccando ho meritato i tuoi castighi

e mi dolgo dei miei castighi perché li ho meritati perché io sono non sono affatto mai divenuta una donna forte

io poltrisco dentro alle federe usurate dei cuscini da notte

mi fingo ribelle esule persino mi fingo eretica e invece pratico

l’ortodossia ogni mese

quattro giorni al mese ventotto anni dovrei avere già un figlio secondo alcuni

(mio padre lo vedo che freme vorrebbe

sapermi meno sola)

ma il mio corpo non è adatto

ad accogliere

il mio corpo è negligente e si nega

alla gente

si nega

a me stessa si nega

e prega

* * *

Stratega

quand’è che arrivi? mi hai detto che vieni

e da allora

aspetto ogni ora che tu

mi dica: non vengo più

   

(sarebbe perfettamente normale:

amare è un fatto del costruire;

la strategia si pone come obiettivo la compensazione della reciproca malattia;

come faremmo mai io e te

con tutta questa

malinconia?)

* * *

Prosaica

tutta questa bellezza e io sempre

così distante immacolata

volgare vergine di provincia

ai santi le cose dei santi

* * *

Nelle poesie di Valentina Cottini spicca con forza l’assenza completa di punteggiatura a favorire un ritmo della narrazione poetica, verso dopo verso, quasi straripante tra ripetizioni scandite e puntuali delle parole e quasi ossessiva nell’impastare un flow – per utilizzare un termine che sembra adatto ai testi in questione – che riporta a volte al più genuino esempio di poetry slam. In questo fluire narrativo, tra impennate e salti metrici, si scorge il forte uso del proprio corpo come luogo esposto alle sofferenze e agli urti che l’io racconta e rivolge su di sé, una mappa attraverso la quale cantare la propria indisposizione verso categorie sentite non proprie e asfissianti, il rifiuto di far colare il proprio essere in forme predefinite alle quali non ci si può più permettere di adattarsi.

Attraverso questo spazio aperto grazie alla parola poetica, ai suoi ritmi a velocità e direzioni alternative da seguire, sembra aprirsi a sua volta la possibilità per l’io di ridefinirsi come donna, come corpo a sé stante, di abitare i luoghi vincendo il sentimento di una lontananza dalla bellezza delle cose che circonda: trovare così, nonostante la malinconia del mondo, una forza d’amore che sia, appunto, tra le varie forme attraversate, un costruire e trovare, un trovarsi insieme e un luogo dove stare.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 13 Settembre 2022

Tre poesie da Feriti dall’acqua di Pietro Romano

XVIII.

Come tradurre l’azzurro arreso del cielo,

quando, con l’odore di terra riarsa, le parole

separano le nubi dalle nubi, gli uccelli

dagli uccelli, le foglie dalle foglie?

* * *

IX.

L’istante in cui pronuncio parola

appassisco e mi do alla luce,

alla voce che infiora.

* * *

XX.

Quest’ombra si interra

per dissetare l’impronta a un passo

dalla pietra a cui dicevi viva

la parola. Era forse il seme raggelato

sotto il sole di dicembre, la voce

che si stemperava dentro il dolore

dirsi soli e incompiuti

tra le braccia del padre.

* * *

Nei suoi versi, tratti dalla raccolta Feriti dall’acqua (peQuod, 2022), Pietro Romano mostra un rapporto profondo e maturato dall’esperienza con la parola poetica, seguendone quasi le correnti sorgive che attraversano i terreni sotterranei fino al loro riemergere sulla carta in componimenti dal corpo breve e tuttavia denso, a incidere il loro significato sullo spazio bianco in cui si pongono. C’è una musicalità estesa che accompagna il racconto di ogni componimento nel suo divenire, dove la poesia si innesta su un’assenza sentita nell’ombra, in un cammino rivolto a sanare un’arsura, un’aridità della propria terra attraverso una parola che tuttavia disperde piuttosto che riunire, separa le cose che nomina facendo così risuonare nel buio della chiamata il silenzio di una solitudine quasi abbracciata, alla fine, con affetto.

Tra un’assonanza e l’altra, tra la ripresa di termini specifici per dare peso e valore alle parole – collocarle (cosa rara) sull’impronta tracciata per loro sul terreno – sembra comunque emergere un calore vitale ancora intatto all’interno dell’io che racconta e si racconta. Lì, sotto lo strato ghiacciato dell’assenza, ci sono ancora istanti in cui fiorire e dissetarsi davvero, forse tramite quella parola che indica un cammino da seguire di fronte ai propri occhi.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 9 Settembre 2022

Leopardi e l’universo – Una prospettiva poetica sulle immagini del telescopio Webb

Se effettivamente le immagini dell’universo all’interno del quale ci troviamo catturate dal telescopio James Webb e pubblicate qualche settimana fa hanno suscitato in noi qualche effetto, di certo quell’effetto stesso non riguarda solamente l’entusiasmo e il plauso per una meta scientifica raggiunta, quanto piuttosto ha a che fare con la percezione di umanità che portiamo dentro e che viene plasmata dalla consapevolezza evocata ogni volta da immagini simili. Una caratteristica che da sempre contraddistingue noi umani su questa terra è, in effetti, quella spinta – che definirei poetica oltre e prima che scientifica – di puntare il naso all’insù e fissare lo sguardo in quella infinità di astri sopra la nostra testa chiedendoci cosa sono loro ma, soprattutto, cosa e dove siamo noi rispetto a loro. Personalmente, nel momento in cui ho visto le immagini dell’universo con le sue nebulose e galassie il mio pensiero è andato subito a chi, dello sguardo all’insù verso le stelle, ne ha fatto uno dei principali motori della sua poesia. Riprendo in mano i Canti di Giacomo Leopardi e scorrendo velocemente il Canto Notturno mi imbatto nel pastore che, seduto ad ammirare la luna sua interlocutrice silenziosa ed il cielo, canta:

   

[…] E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono? […] [1]

   

Ecco, non posso negare che le parole di Giacomo risuonano con una forza incredibile e, potremmo dire, senza tempo, accompagnandole alle immagini di quelle infinte galassie, stelle, soli e così a proseguire che si aprono in questi giorni di fronte ai nostri occhi. Forse perché Leopardi, nella sua da sempre chiarissima percezione dell’essenzialità delle cose dell’esistenza (un tema che sicuramente riprenderemo qui sulla Radura) aveva colto quel legame ontologico che lega l’essere umano all’universo di cui fa parte e agli astri che del secondo rappresentato il disegno poetico che viene colto dalla percezione del primo, ogni volta che esso alza lo sguardo sopra di sé. E questo legame ha a che fare, probabilmente, con quel senso di meraviglia abissale al quale segue un domandare titubante ma indispensabile, insopprimibile nell’animo: domandare per cercare di comprendere la natura di quel disegno spaziale, nella speranza che proprio in quelle lontane costellazioni di senso si nasconda la risposta sulla natura dell’uomo stesso che domanda («[…] dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?» [2]). Leopardi ci mostra così, con la semplicità essenziale della sua poesia, come il nostro rapporto con l’universo, il cosmo, sia sempre stato orientato inevitabilmente dal tentativo di capirci meglio, comprendere il nostro posto nel mondo e, soprattutto, le esperienze spesso dolorose che lo caratterizzano. Così per il pastore del Canto notturno la luna diventa l’astro più vicino di quel disegno profondo e ammaliante a cui poter chiedere incerto:

   

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir della terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia. [3]

   

L’uomo in qualche modo capisce di essere parte di quel disegno che osserva e, allora, cerca di leggere al meglio i dettagli che può cogliere ad occhio nudo (o con i propri mezzi tecnologici) per orientarsi in quella mappa cosmica e, di conseguenza, riorientare ogni volta la propria posizione non solo geografica, spaziale, ma ontologica all’interno di quel disegno stesso.


Tuttavia, è proprio in questo atteggiamento profondamente poetico, oltre che scientifico, che Leopardi scorge una possibile (poi storicamente realizzatasi quasi sin da subito) pericolosa china da percorrere che può portare l’uomo a credere, egoisticamente e scioccamente, di essere di diritto al centro di quel disegno cosmico, nonché anche il fulcro del suo senso. Il poeta di Recanati nella Ginestra si scaglia con veemenza e una certa dose di buon gusto ironico verso la maggior parte degli uomini del suo tempo – ma la critica potrebbe tranquillamente valere per i nostri giorni – che credono follemente che l’universo tutto sia stato fatto e ordinato ad uso e costume dell’uomo:

   

[…] Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio

Che sembri allora, o prole

Dell’uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

Per tua cagion, dell’universe cose

Scender gli autori […] [4]

   

L’uomo, insomma, ha finito velocemente per credere di essere la ragione stessa insita nel disegno che osserva sopra la propria testa: ha smesso di domandare poeticamente spaesato per, al contrario, definire in modo certo e inossidabile verità antropocentriche, compiacendosi di una certa prassi scientifica. Leopardi dedica al problema dell’antropocentrismo rispetto all’universo buona parte della sua opera, forse perché capisce che non si tratta semplicemente di un atteggiamento accademico poco simpatico e incline alla conversazione, quanto piuttosto di una postura esistenziale che rischia di deviare (e puntualmente lo fa) terribilmente l’uomo dal rapporto reale che lo lega al mondo e, in questo caso specifico, ai mondi fuori dal suo. Così nelle Operette Morali Giacomo punzecchia spessissimo con profonda e geniale ironia la credenza oramai sempre più in voga tra gli uomini moderni di essere il centro di ogni cosa. Non a caso, ad esempio, riprende proprio la figura della luna che, dialogando con la terra, stavolta parla e risponde divertita al globo terrestre che pensa convintamente che i fenomeni naturali etc. che accadono su di lei siano esattamente gli stessi anche sul suo più piccolo satellite: «Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto» [5]. L’essere umano si è convinto allora che la natura stessa, in tutte le sue forme e realizzazioni, graviti intorno al suo stato, alle sue conoscenze etc. in particolare quelle scientifiche, delle quali sempre più gli uomini vanno fieri attraverso un uso esclusivamente tecnico e centrato solo su loro stessi. E proprio sulla distorsione della scienza che, in qualche modo, ha determinato questo sfasamento tra l’uomo e il disegno dell’universo che ora osserva e analizza freddamente e con un malcelato orgoglio autistico attraverso lenti sempre più potenti dei suoi cannocchiali, Leopardi si sofferma in un altro dialogo delle Operette, immaginando che un folletto e uno gnomo discorrano amabilmente a proposito della scomparsa dell’uomo sulla terra. Ecco, infatti, uno dei due sorridere in questo modo delle manie di grandezza dell’ormai estinta stirpe umana e delle sue grandi tecnologie:

   

Parimente di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie; perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende. [6]

   

E, subito dopo, ratifica con un’ultima smorfia divertita l’assoluta inconsistenza delle manie di grandezza dell’uomo di fronte all’immensità dell’universo: «E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie» [7]. L’altra faccia della medaglia nel voler essere i padroni – completamente centrati sul proprio ego umano – della geografia del cosmo, sembra suggerirci Leopardi, sta nell’inevitabile fatto di ritrovarsi prima o poi soverchiati dall’immensità impossibile da comprendere dentro le nostre carte, i nostri calcoli etc. dell’universo stesso salvo per poi scoprire, in aggiunta, di essere assolutamente irrilevanti al suo interno; un minuscolo granello che ancora cerca di orientarsi come l’umile poeta dell’inizio: solo che, in questo caso, lo scienziato orgoglioso farà esperienza più traumaticamente di una simile consapevolezza della natura delle cose attorno a lui. È, questo, proprio lo sguardo accorato e le parole preoccupate di Copernico al Sole, sempre nelle Operette, di fronte alla scoperta dell’eliocentrismo e delle conseguenze esistenziali che potrebbe avere sull’intera specie umana:

   

Considerate, illustrissimo, quel ch’è ragionevole che avvenga degli altri pianeti. Che quando vedranno la terra fare ogni cosa che fanno essi, e divenuta uno di loro, non vorranno più restarsene così lisci, semplici e disadorni, così deserti e tristi, come sono stati sempre; e che la Terra sola abbia quei tanti ornamenti: ma vorranno ancora essi i lor fiumi, i lor mari, le loro montagne, le piante, e fra le altre cose i loro animali e abitatori; non vedendo ragione alcuna di dovere essere da meno della Terra in nessuna parte. Ed eccovi un altro rivolgimento grandissimo nel mondo; e una infinità di famiglie e di popolazioni nuove, che in un momento si vedranno venir su da tutte le bande, come funghi. [8]

   

E nella risposta tagliente del Sole («E tu le lascerai che vengano […]» [9]) possiamo scorgere l’imbarazzo e il senso di vuoto assoluto che avvolge Copernico, rappresentate dell’animo puramente scientifico dell’uomo e di tutti quelli che, come lui, credevano di poter orientare l’universo verso di sé grazie alle proprie abilità tecniche. Nessun orientamento, ci dice Giacomo, piuttosto uno spaesamento ancora più abissale che rischia di far precipitate anche la mente più fieramente e orgogliosamente oggettiva nel buio più nero dello spazio (non solo esteriore, ma soprattutto interiore [10]). Di fronte all’uomo che pensa di essere «[…] un imperatore dell’universo; un imperatore del sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale delle stelle, dei pianeti […] e di tutte le cose» [11] l’universo risponde con la sua semplice ma ineludibile presenza, la sua infinita estensione che, una vola scoperta dei cannocchiali dell’uomo, getta chi li adopera di fronte alla propria inconsistenza rispetto all’immensità del cosmo stesso.


Se il nostro sguardo allora si affina sempre di più e, tuttavia, ci fa sentire sempre più piccoli e sperduti tra le nebulose e i quasar proiettati delle immagini sempre più avanzate che possediamo, come possiamo risolvere questo cortocircuito esistenziale tra spinta esplorativa e il disagio dispersivo che, spesso, ne consegue? Torniamo un’ultima volta, insieme a Giacomo, da dove abbiamo cominciato questo ragionamento, ovvero alla sua luna. Verso la fine del suo canto, il pastore rivolge queste parole al disco biancastro sopra di sé:

   

Forse s’avess’io l’ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna. [12]

   

Il pastore, che abbiamo visto rappresentare quello sguardo maggiormente poetico verso il disegno dell’universo che a stento riesce a scorgere, sembra esprimere qui una sorta di umile e timorosa felicità – ma tuttavia tale – di fronte alla consapevolezza del suo esistere all’interno di un ordine di cose così infinitamente più grande e impossibile da comprendere del tutto. In altre parole, la proposta che mi sento di fare da queste letture di Leopardi è quella di recuperare una prospettiva poetica di fronte all’esplorazione del cosmo che oggi sempre più è lanciata in avanti: i nostri strumenti tecnologici sono straordinari e ci permettono di osservare corpi celesti che mai prima d’ora avremmo potuto sperare di scorgere. In questo senso, allora, cerchiamo di legare all’osservazione tecnicamente straordinaria e lodevole delle immagini di un qualsiasi telescopio Webb l’emozione – poetica e, quindi, fortemente umana – di sentirci parte, certamente piccola, ma pur sempre una parte di quel disegno così profondo e affascinante. Ancora Leopardi, ancora con la luna e la terra che discutono tra di loro, ci offre forse la prospettiva poetica più bella di questo sentirsi parte dell’universo, senza però pensare di esserne il centro:

   

Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?

Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.

Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo.

Luna. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda. [13]

   

Come i due astri che parlano sopra anche noi forse siamo parte di una musica cosmica della quale spesso, a volte per lontananza da una simile prospettiva e assorbiti da noi stessi, altre per semplice noncuranza, non siamo coscienti. Se esiste un rapporto più vivo e stretto tra l’uomo e la natura e, in questo caso, l’universo stesso, le immagini di quest’ultimo al contrario di farci sentire solamente sperduti possono invece ricordarci di essere una «corda», appunto, di quello spartito che si distende tra una stella e l’altra di fronte ai nostri occhi. Sta a noi, sembra dirci Leopardi con la sua poesia, sederci di fronte a quel disegno nel cielo e, osservandolo più o meno attentamente, sentirsene parte e provare – nonostante l’inevitabile senso di dispersione iniziale – una certa e timida felicità di essere consapevoli della nostra esistenza al suo interno. La poesia, in questo senso, ancora una volta svela la natura delle cose di fronte allo sguardo di chi ne fa uso e, in questo caso specifico, anche il legame di cui quest’ultimo è parte con esse, cosciente o meno: ogni volta che osserviamo cosa esiste sopra le nostre teste non dimentichiamolo perché potrebbe indicarci meglio il nostro posto nel mondo e, di nuovo, tra i mondi verso i quali guardiamo sempre più spesso.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 4 Agosto 2022

[1] Giacomo Leopardi, Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia, in Canti, Bur Rizzoli e Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018, vv. 84-9.

[2] Ivi, vv. 18-20.

[3] Ivi, vv. 61-68.

[4] G. Leopardi, La ginestra, in Canti, vv. 180-93.

[5] G. Leopardi, Dialogo della Terra e della Luna, in Operette Morali, Rizzoli libri S.pA., 2016, pp. 197-8.

[6] G. Leopardi, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, in Operette Morali, p. 162.

[7] Ibidem.

[8] G. Leopardi, Il Copernico. Dialogo, in Operette Morali, pp. 532-3.

[9] Ibidem.

[10] «Perché chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo […]» G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Letteratura italiana Einaudi in Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze, 1921, pp. 137-8.

[11] G. Leopardi, Il Copernico. Dialogo, pp. 530-1.

[12] G. Leopardi, Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 133-8.

[13] G. Leopardi, Dialogo della Terra e della Luna, pp. 194-5.

Tre poesie da Città fantasma di Flavia Cidonio

Il giorno

Un solo punto di ombra e pensiero in cui fare ritorno:

l’ultima corsa notturna, con gli occhi vuoti

dove ogni destino è pari al peso di radice immemore

e un presente già morto non sa intuire promessa,

la segue come una bestia di ritorno alla tana

dove alcuni sostengono che i raggi principiano

all’alba nuova e già stantia

le anime prossime all’uscita

barattano il peso della loro stanchezza

per un movimento nuovo, immobile

privo di conti in sospeso.

* * *

Primo giro

Nomina i venti che ci separano,

i giorni percorsi a passi indietro,

tutti gli addii mai ribaditi

le tracce delle tue mani nelle mie tasche

quando cammino in avanti

e la sagoma di un cappello mai ritrovato

che ora è utile alla mia memoria di tormalina

quando non riesco a dar forma a un pensiero

che mi somigli.

Io proseguo, priva di nome

attendo che chiami l’ora del nostro battesimo,

la sola deputata all’inesistente

che pure impone la prima eco.

* * *

Domarsi

Mi è cara l’inesattezza

che consente l’estensione del margine,

mai del tutto presente dove termina il sole.

Cancello dal mio capo il suo tratto ogni sera

e sciolgo i capelli

lungo le spalle e il volto

perché coprano gli occhi,

– che non entri luce se non può essere accolta -.

Dimentico i nomi e tutti i proverbi dunque,

per trovarli nuovamente incisi

sulla fronte il mattino seguente,

come marchio di tacito rimprovero

che impone il suo tocco di giada

ma è sufficiente che io taccia,

senza mescolare volti e risa

che non mi appartengono

è sufficiente mentirsi

verità nascoste, rifiutarsi di dire altro

e sostenere lo sguardo del nulla,

col mento che svetta e gli occhi ben desti

per dire niente, per occupare spazi incolumi.

   

L’eterna stupidità, la sacra assenza

non è che sogno simultaneo.

* * *

Nelle poesie di Flavia Cidonio, tratte dalla raccolta Città fantasma (Edizioni La Gru, 2022), la narrazione poetica sembra emergere all’interno dei versi con delicata prepotenza del tema della memoria, del ricordo cui ora fare ritorno ora invece lasciarsi alle spalle; tra momenti rappresi nel tempo in cui un raggio di luce può entrare, svelando all’io le sue verità e ricordi volutamente obliati e sfocati, salvo poi notarne il ritorno costante e rinchiudersi a forza in un’indifferenza opaca e, soprattutto, afona.

In questo spazio si nota sin da subito un ritmo marcato, a partire dall’incipit tagliente e ben definito di ogni componimento che detta poi ai versi successivi la loro stessa cadenza da seguire, evolvendosi al loro interno attraverso pause scandite con efficacia. Così, in questo sentiero attraverso il quale l’io decide di proseguire e fatto di inesattezze, sfocature e anonimati comunque sembra risuonare, forse, un’eco: la parola che nomina le cose, che mostra tramite metafore e similitudini immagini forti e dense, esatte e ben definite. È in queste parole che sembra si apra un’attesa per un’ora nuova, nella quale recuperare e recuperarsi da un’assenza che, nonostante voglia essere taciuta, viene cantata.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 18 Luglio 2022