Tre poesie da La vita là fuori di Mariapia Crisafulli

L’alter

Ti lascio i miei volti

rubati in stazione

Tutto l’umano che conosco

e possiedo

sta lì

   

Se impari ad amarmi

è perché ami loro

Se imparo ad amarti

è perché ho amato in loro

la trascuratezza

che il mondo riserva

nel rincorrere

i treni

in quelle mattine

uguali alle sere

[buie e fiacche

   

Hai mai visto qualcuno dormire

su un treno? – Sì che l’hai visto –

Ma il chiacchiericcio dei suoi pensieri,

il peso dei sogni interrotti

(dalle sveglie, nelle fermate…)?

   

Questo ho scoperto nei volti

dispersi e ammassati

tra le banchine e i sottopassi

in cui usuro le cicche

   

E questo ti lascio

mentre ti stringo

se ti sento annegare

mentre mi stringi

e mi scopri sfiorire

nella corsa dei giorni

* * *

La misura delle cose

La storia si conta per secoli

La vita per decenni

   

E i giorni per cose fatte o da fare

E le notti per occasioni consumate

o perdute

   

Le poesie si contano per fogli sparsi

come le case per finestre accese

in attesa di un ritorno

o intimando un addio.

* * *

Constatazioni

Potrei cantare le visioni dei vivi

i presagi che i morti sussurrano loro

aprendogli il varco dall’altra parte

   

Ma la mia mano è ferma

e il mio sguardo veglia sulle cose

che tocco e respiro

   

I morti mi vivono dentro e mai accanto:

viviamo qui insieme

[nessuno muore ancora

   

Là fuori c’è solo la vita

* * *

Le poesie di Mariapia Crisafulli, tratte dalla sua raccolta La vita là fuori (Macabor, 2021), si palesano attraverso versi spesso irregolari che mimano un andamento alterno e avvolgente mentre l’io, da dietro le parole, distende il suo canto man mano. In questo percorso metrico, tra una strofa e l’altra, molta attenzione è riservata in maniera chiara e precisa alla musicalità che scorre nei componimenti stessi: in particolare l’uso di anafore e altre ripetizioni dà luogo a un ritmo cadenzato, a volte quasi rituale mentre si aprono davanti agli occhi del lettore le immagini evocate dalle parole. A completare il canto, le varie rime e assonanze inserite spesso negli spazi tra i versi dove si muovono i punti significativi della narrazione poetica, aumentandone così il climax ed esaltandone il senso.

All’interno di questo racconto emerge con forza e delicatezza al tempo stesso la ricerca di una presenza amata attinta tuttavia a partire dalla sua assenza: essa non sembra coincidere con un solo punto focale della vita, con una sua singola entità, ma con la vita stessa mostrandosi come ostinata resistenza a uno scorrere del tempo, dei giorni, avvertito con ansia attraverso immagini sia quotidiane sia di una storia più generale e umana. Così, anche la morte che emerge da tempo rimane all’interno e non accanto mentre l’io aderisce ancora alla vita toccandone le cose: c’è ancora un sentiero da seguire, mediato dalla poesia, dove trovare un ritorno.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 29 Settembre 2022

Tre poesie di Simone Migliazza

Al centro dell’estate, nel calore,

s’é fatto asciutto d’un tratto il parlare

delle cose: la casa, il mare, gli alberi

non dicono che sé stessi. Aderire

alla vita ha un prezzo di silenzio: vivere

e basta, semplicemente. Solitudine

insondabile, estranea mia ombra.

* * *

É già tempesta ai monti. Un borbottare

si fa strada in città, sui tetti e i muri

s’allunga un’ombra. “È morta. La sorella

di Anna, dico. É morta”, fa una voce

per la via. Si perde la risposta.

Fare cose da vivi, con del pane

e pomodori mangiare. Non serve altro.

* * *

È indaffarata una mosca a ronzare

dentro casa, di tutto s’interessa:

pareti, costole di libri, piatti

lasciati ad asciugare. Inesplorato

mondo il mio vivere ordinario, dove

grattare via la carne dalle ciotole

dei gatti a lei sa quasi d’eldorado.

* * *

Nelle poesie di Simone Migliazza spicca sin da subito l’attenzione per le cose “minute” del vivere quotidiano che, cantate dalla poesia, riescono nel loro tentativo di non dire altro che sé stesse, trovando un’efficacia del loro stesso significato di fronte all’io che le osserva proprio grazie alla loro semplice, asciutta ed essenziale presenza che resta lì, ineludibile. Questa efficacia dell’essenzialità del dire poetico si rispecchia, formalmente, nella costruzione dei versi stessi: il ritmo è scandito in modo certo e puntuale da un uso deciso della punteggiatura che, delineandosi man mano, dà luogo a brevi frammenti quasi, sentenze che si susseguono l’una dietro l’altra in maniera ordinata.

Tuttavia, lo stesso uso non casuale di assonanze e rime crea un collante, una linea unificatrice per ogni singolo pensiero poetico formando un canto che, appunto, trova una sua unità narrando le cose semplici e immediate attraverso un io che sceglie con cura ogni singola parola per mantenere viva la loro efficacia di senso. Così, le cose stesse della quotidianità narrata trovano un’unità tra di loro, un significato ultimo che le parole sembrano suggerire e indicare a chi sta loro di fronte, in attesa.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 21 Settembre 2022

Tre poesie di Valentina Cottini

Disaccolgo

io non sono resistente non sono un corso d’acqua non corro lo stesso oltre l’ostacolo ricavandomi un nuovo sentiero io sono

la diga

sono la diga e talvolta l’acqua ferma

e sono così stanca della narrazione

reticente

della retorica delle donne

resilienti

io sbaglio taglio mi pento mi dolgo dei miei peccati

perché peccando ho meritato i tuoi castighi

e mi dolgo dei miei castighi perché li ho meritati perché io sono non sono affatto mai divenuta una donna forte

io poltrisco dentro alle federe usurate dei cuscini da notte

mi fingo ribelle esule persino mi fingo eretica e invece pratico

l’ortodossia ogni mese

quattro giorni al mese ventotto anni dovrei avere già un figlio secondo alcuni

(mio padre lo vedo che freme vorrebbe

sapermi meno sola)

ma il mio corpo non è adatto

ad accogliere

il mio corpo è negligente e si nega

alla gente

si nega

a me stessa si nega

e prega

* * *

Stratega

quand’è che arrivi? mi hai detto che vieni

e da allora

aspetto ogni ora che tu

mi dica: non vengo più

   

(sarebbe perfettamente normale:

amare è un fatto del costruire;

la strategia si pone come obiettivo la compensazione della reciproca malattia;

come faremmo mai io e te

con tutta questa

malinconia?)

* * *

Prosaica

tutta questa bellezza e io sempre

così distante immacolata

volgare vergine di provincia

ai santi le cose dei santi

* * *

Nelle poesie di Valentina Cottini spicca con forza l’assenza completa di punteggiatura a favorire un ritmo della narrazione poetica, verso dopo verso, quasi straripante tra ripetizioni scandite e puntuali delle parole e quasi ossessiva nell’impastare un flow – per utilizzare un termine che sembra adatto ai testi in questione – che riporta a volte al più genuino esempio di poetry slam. In questo fluire narrativo, tra impennate e salti metrici, si scorge il forte uso del proprio corpo come luogo esposto alle sofferenze e agli urti che l’io racconta e rivolge su di sé, una mappa attraverso la quale cantare la propria indisposizione verso categorie sentite non proprie e asfissianti, il rifiuto di far colare il proprio essere in forme predefinite alle quali non ci si può più permettere di adattarsi.

Attraverso questo spazio aperto grazie alla parola poetica, ai suoi ritmi a velocità e direzioni alternative da seguire, sembra aprirsi a sua volta la possibilità per l’io di ridefinirsi come donna, come corpo a sé stante, di abitare i luoghi vincendo il sentimento di una lontananza dalla bellezza delle cose che circonda: trovare così, nonostante la malinconia del mondo, una forza d’amore che sia, appunto, tra le varie forme attraversate, un costruire e trovare, un trovarsi insieme e un luogo dove stare.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 13 Settembre 2022

Tre poesie da Feriti dall’acqua di Pietro Romano

XVIII.

Come tradurre l’azzurro arreso del cielo,

quando, con l’odore di terra riarsa, le parole

separano le nubi dalle nubi, gli uccelli

dagli uccelli, le foglie dalle foglie?

* * *

IX.

L’istante in cui pronuncio parola

appassisco e mi do alla luce,

alla voce che infiora.

* * *

XX.

Quest’ombra si interra

per dissetare l’impronta a un passo

dalla pietra a cui dicevi viva

la parola. Era forse il seme raggelato

sotto il sole di dicembre, la voce

che si stemperava dentro il dolore

dirsi soli e incompiuti

tra le braccia del padre.

* * *

Nei suoi versi, tratti dalla raccolta Feriti dall’acqua (peQuod, 2022), Pietro Romano mostra un rapporto profondo e maturato dall’esperienza con la parola poetica, seguendone quasi le correnti sorgive che attraversano i terreni sotterranei fino al loro riemergere sulla carta in componimenti dal corpo breve e tuttavia denso, a incidere il loro significato sullo spazio bianco in cui si pongono. C’è una musicalità estesa che accompagna il racconto di ogni componimento nel suo divenire, dove la poesia si innesta su un’assenza sentita nell’ombra, in un cammino rivolto a sanare un’arsura, un’aridità della propria terra attraverso una parola che tuttavia disperde piuttosto che riunire, separa le cose che nomina facendo così risuonare nel buio della chiamata il silenzio di una solitudine quasi abbracciata, alla fine, con affetto.

Tra un’assonanza e l’altra, tra la ripresa di termini specifici per dare peso e valore alle parole – collocarle (cosa rara) sull’impronta tracciata per loro sul terreno – sembra comunque emergere un calore vitale ancora intatto all’interno dell’io che racconta e si racconta. Lì, sotto lo strato ghiacciato dell’assenza, ci sono ancora istanti in cui fiorire e dissetarsi davvero, forse tramite quella parola che indica un cammino da seguire di fronte ai propri occhi.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 9 Settembre 2022

Leopardi e l’universo – Una prospettiva poetica sulle immagini del telescopio Webb

Se effettivamente le immagini dell’universo all’interno del quale ci troviamo catturate dal telescopio James Webb e pubblicate qualche settimana fa hanno suscitato in noi qualche effetto, di certo quell’effetto stesso non riguarda solamente l’entusiasmo e il plauso per una meta scientifica raggiunta, quanto piuttosto ha a che fare con la percezione di umanità che portiamo dentro e che viene plasmata dalla consapevolezza evocata ogni volta da immagini simili. Una caratteristica che da sempre contraddistingue noi umani su questa terra è, in effetti, quella spinta – che definirei poetica oltre e prima che scientifica – di puntare il naso all’insù e fissare lo sguardo in quella infinità di astri sopra la nostra testa chiedendoci cosa sono loro ma, soprattutto, cosa e dove siamo noi rispetto a loro. Personalmente, nel momento in cui ho visto le immagini dell’universo con le sue nebulose e galassie il mio pensiero è andato subito a chi, dello sguardo all’insù verso le stelle, ne ha fatto uno dei principali motori della sua poesia. Riprendo in mano i Canti di Giacomo Leopardi e scorrendo velocemente il Canto Notturno mi imbatto nel pastore che, seduto ad ammirare la luna sua interlocutrice silenziosa ed il cielo, canta:

   

[…] E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono? […] [1]

   

Ecco, non posso negare che le parole di Giacomo risuonano con una forza incredibile e, potremmo dire, senza tempo, accompagnandole alle immagini di quelle infinte galassie, stelle, soli e così a proseguire che si aprono in questi giorni di fronte ai nostri occhi. Forse perché Leopardi, nella sua da sempre chiarissima percezione dell’essenzialità delle cose dell’esistenza (un tema che sicuramente riprenderemo qui sulla Radura) aveva colto quel legame ontologico che lega l’essere umano all’universo di cui fa parte e agli astri che del secondo rappresentato il disegno poetico che viene colto dalla percezione del primo, ogni volta che esso alza lo sguardo sopra di sé. E questo legame ha a che fare, probabilmente, con quel senso di meraviglia abissale al quale segue un domandare titubante ma indispensabile, insopprimibile nell’animo: domandare per cercare di comprendere la natura di quel disegno spaziale, nella speranza che proprio in quelle lontane costellazioni di senso si nasconda la risposta sulla natura dell’uomo stesso che domanda («[…] dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?» [2]). Leopardi ci mostra così, con la semplicità essenziale della sua poesia, come il nostro rapporto con l’universo, il cosmo, sia sempre stato orientato inevitabilmente dal tentativo di capirci meglio, comprendere il nostro posto nel mondo e, soprattutto, le esperienze spesso dolorose che lo caratterizzano. Così per il pastore del Canto notturno la luna diventa l’astro più vicino di quel disegno profondo e ammaliante a cui poter chiedere incerto:

   

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir della terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia. [3]

   

L’uomo in qualche modo capisce di essere parte di quel disegno che osserva e, allora, cerca di leggere al meglio i dettagli che può cogliere ad occhio nudo (o con i propri mezzi tecnologici) per orientarsi in quella mappa cosmica e, di conseguenza, riorientare ogni volta la propria posizione non solo geografica, spaziale, ma ontologica all’interno di quel disegno stesso.


Tuttavia, è proprio in questo atteggiamento profondamente poetico, oltre che scientifico, che Leopardi scorge una possibile (poi storicamente realizzatasi quasi sin da subito) pericolosa china da percorrere che può portare l’uomo a credere, egoisticamente e scioccamente, di essere di diritto al centro di quel disegno cosmico, nonché anche il fulcro del suo senso. Il poeta di Recanati nella Ginestra si scaglia con veemenza e una certa dose di buon gusto ironico verso la maggior parte degli uomini del suo tempo – ma la critica potrebbe tranquillamente valere per i nostri giorni – che credono follemente che l’universo tutto sia stato fatto e ordinato ad uso e costume dell’uomo:

   

[…] Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio

Che sembri allora, o prole

Dell’uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

Per tua cagion, dell’universe cose

Scender gli autori […] [4]

   

L’uomo, insomma, ha finito velocemente per credere di essere la ragione stessa insita nel disegno che osserva sopra la propria testa: ha smesso di domandare poeticamente spaesato per, al contrario, definire in modo certo e inossidabile verità antropocentriche, compiacendosi di una certa prassi scientifica. Leopardi dedica al problema dell’antropocentrismo rispetto all’universo buona parte della sua opera, forse perché capisce che non si tratta semplicemente di un atteggiamento accademico poco simpatico e incline alla conversazione, quanto piuttosto di una postura esistenziale che rischia di deviare (e puntualmente lo fa) terribilmente l’uomo dal rapporto reale che lo lega al mondo e, in questo caso specifico, ai mondi fuori dal suo. Così nelle Operette Morali Giacomo punzecchia spessissimo con profonda e geniale ironia la credenza oramai sempre più in voga tra gli uomini moderni di essere il centro di ogni cosa. Non a caso, ad esempio, riprende proprio la figura della luna che, dialogando con la terra, stavolta parla e risponde divertita al globo terrestre che pensa convintamente che i fenomeni naturali etc. che accadono su di lei siano esattamente gli stessi anche sul suo più piccolo satellite: «Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto» [5]. L’essere umano si è convinto allora che la natura stessa, in tutte le sue forme e realizzazioni, graviti intorno al suo stato, alle sue conoscenze etc. in particolare quelle scientifiche, delle quali sempre più gli uomini vanno fieri attraverso un uso esclusivamente tecnico e centrato solo su loro stessi. E proprio sulla distorsione della scienza che, in qualche modo, ha determinato questo sfasamento tra l’uomo e il disegno dell’universo che ora osserva e analizza freddamente e con un malcelato orgoglio autistico attraverso lenti sempre più potenti dei suoi cannocchiali, Leopardi si sofferma in un altro dialogo delle Operette, immaginando che un folletto e uno gnomo discorrano amabilmente a proposito della scomparsa dell’uomo sulla terra. Ecco, infatti, uno dei due sorridere in questo modo delle manie di grandezza dell’ormai estinta stirpe umana e delle sue grandi tecnologie:

   

Parimente di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie; perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende. [6]

   

E, subito dopo, ratifica con un’ultima smorfia divertita l’assoluta inconsistenza delle manie di grandezza dell’uomo di fronte all’immensità dell’universo: «E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie» [7]. L’altra faccia della medaglia nel voler essere i padroni – completamente centrati sul proprio ego umano – della geografia del cosmo, sembra suggerirci Leopardi, sta nell’inevitabile fatto di ritrovarsi prima o poi soverchiati dall’immensità impossibile da comprendere dentro le nostre carte, i nostri calcoli etc. dell’universo stesso salvo per poi scoprire, in aggiunta, di essere assolutamente irrilevanti al suo interno; un minuscolo granello che ancora cerca di orientarsi come l’umile poeta dell’inizio: solo che, in questo caso, lo scienziato orgoglioso farà esperienza più traumaticamente di una simile consapevolezza della natura delle cose attorno a lui. È, questo, proprio lo sguardo accorato e le parole preoccupate di Copernico al Sole, sempre nelle Operette, di fronte alla scoperta dell’eliocentrismo e delle conseguenze esistenziali che potrebbe avere sull’intera specie umana:

   

Considerate, illustrissimo, quel ch’è ragionevole che avvenga degli altri pianeti. Che quando vedranno la terra fare ogni cosa che fanno essi, e divenuta uno di loro, non vorranno più restarsene così lisci, semplici e disadorni, così deserti e tristi, come sono stati sempre; e che la Terra sola abbia quei tanti ornamenti: ma vorranno ancora essi i lor fiumi, i lor mari, le loro montagne, le piante, e fra le altre cose i loro animali e abitatori; non vedendo ragione alcuna di dovere essere da meno della Terra in nessuna parte. Ed eccovi un altro rivolgimento grandissimo nel mondo; e una infinità di famiglie e di popolazioni nuove, che in un momento si vedranno venir su da tutte le bande, come funghi. [8]

   

E nella risposta tagliente del Sole («E tu le lascerai che vengano […]» [9]) possiamo scorgere l’imbarazzo e il senso di vuoto assoluto che avvolge Copernico, rappresentate dell’animo puramente scientifico dell’uomo e di tutti quelli che, come lui, credevano di poter orientare l’universo verso di sé grazie alle proprie abilità tecniche. Nessun orientamento, ci dice Giacomo, piuttosto uno spaesamento ancora più abissale che rischia di far precipitate anche la mente più fieramente e orgogliosamente oggettiva nel buio più nero dello spazio (non solo esteriore, ma soprattutto interiore [10]). Di fronte all’uomo che pensa di essere «[…] un imperatore dell’universo; un imperatore del sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale delle stelle, dei pianeti […] e di tutte le cose» [11] l’universo risponde con la sua semplice ma ineludibile presenza, la sua infinita estensione che, una vola scoperta dei cannocchiali dell’uomo, getta chi li adopera di fronte alla propria inconsistenza rispetto all’immensità del cosmo stesso.


Se il nostro sguardo allora si affina sempre di più e, tuttavia, ci fa sentire sempre più piccoli e sperduti tra le nebulose e i quasar proiettati delle immagini sempre più avanzate che possediamo, come possiamo risolvere questo cortocircuito esistenziale tra spinta esplorativa e il disagio dispersivo che, spesso, ne consegue? Torniamo un’ultima volta, insieme a Giacomo, da dove abbiamo cominciato questo ragionamento, ovvero alla sua luna. Verso la fine del suo canto, il pastore rivolge queste parole al disco biancastro sopra di sé:

   

Forse s’avess’io l’ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna. [12]

   

Il pastore, che abbiamo visto rappresentare quello sguardo maggiormente poetico verso il disegno dell’universo che a stento riesce a scorgere, sembra esprimere qui una sorta di umile e timorosa felicità – ma tuttavia tale – di fronte alla consapevolezza del suo esistere all’interno di un ordine di cose così infinitamente più grande e impossibile da comprendere del tutto. In altre parole, la proposta che mi sento di fare da queste letture di Leopardi è quella di recuperare una prospettiva poetica di fronte all’esplorazione del cosmo che oggi sempre più è lanciata in avanti: i nostri strumenti tecnologici sono straordinari e ci permettono di osservare corpi celesti che mai prima d’ora avremmo potuto sperare di scorgere. In questo senso, allora, cerchiamo di legare all’osservazione tecnicamente straordinaria e lodevole delle immagini di un qualsiasi telescopio Webb l’emozione – poetica e, quindi, fortemente umana – di sentirci parte, certamente piccola, ma pur sempre una parte di quel disegno così profondo e affascinante. Ancora Leopardi, ancora con la luna e la terra che discutono tra di loro, ci offre forse la prospettiva poetica più bella di questo sentirsi parte dell’universo, senza però pensare di esserne il centro:

   

Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?

Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.

Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da’ miei poli all’equatore, e dall’equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch’è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l’ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l’odo.

Luna. Anch’io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l’odo: e non so di essere una corda. [13]

   

Come i due astri che parlano sopra anche noi forse siamo parte di una musica cosmica della quale spesso, a volte per lontananza da una simile prospettiva e assorbiti da noi stessi, altre per semplice noncuranza, non siamo coscienti. Se esiste un rapporto più vivo e stretto tra l’uomo e la natura e, in questo caso, l’universo stesso, le immagini di quest’ultimo al contrario di farci sentire solamente sperduti possono invece ricordarci di essere una «corda», appunto, di quello spartito che si distende tra una stella e l’altra di fronte ai nostri occhi. Sta a noi, sembra dirci Leopardi con la sua poesia, sederci di fronte a quel disegno nel cielo e, osservandolo più o meno attentamente, sentirsene parte e provare – nonostante l’inevitabile senso di dispersione iniziale – una certa e timida felicità di essere consapevoli della nostra esistenza al suo interno. La poesia, in questo senso, ancora una volta svela la natura delle cose di fronte allo sguardo di chi ne fa uso e, in questo caso specifico, anche il legame di cui quest’ultimo è parte con esse, cosciente o meno: ogni volta che osserviamo cosa esiste sopra le nostre teste non dimentichiamolo perché potrebbe indicarci meglio il nostro posto nel mondo e, di nuovo, tra i mondi verso i quali guardiamo sempre più spesso.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 4 Agosto 2022

[1] Giacomo Leopardi, Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia, in Canti, Bur Rizzoli e Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018, vv. 84-9.

[2] Ivi, vv. 18-20.

[3] Ivi, vv. 61-68.

[4] G. Leopardi, La ginestra, in Canti, vv. 180-93.

[5] G. Leopardi, Dialogo della Terra e della Luna, in Operette Morali, Rizzoli libri S.pA., 2016, pp. 197-8.

[6] G. Leopardi, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, in Operette Morali, p. 162.

[7] Ibidem.

[8] G. Leopardi, Il Copernico. Dialogo, in Operette Morali, pp. 532-3.

[9] Ibidem.

[10] «Perché chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo […]» G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Letteratura italiana Einaudi in Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze, 1921, pp. 137-8.

[11] G. Leopardi, Il Copernico. Dialogo, pp. 530-1.

[12] G. Leopardi, Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 133-8.

[13] G. Leopardi, Dialogo della Terra e della Luna, pp. 194-5.

Tre poesie da Città fantasma di Flavia Cidonio

Il giorno

Un solo punto di ombra e pensiero in cui fare ritorno:

l’ultima corsa notturna, con gli occhi vuoti

dove ogni destino è pari al peso di radice immemore

e un presente già morto non sa intuire promessa,

la segue come una bestia di ritorno alla tana

dove alcuni sostengono che i raggi principiano

all’alba nuova e già stantia

le anime prossime all’uscita

barattano il peso della loro stanchezza

per un movimento nuovo, immobile

privo di conti in sospeso.

* * *

Primo giro

Nomina i venti che ci separano,

i giorni percorsi a passi indietro,

tutti gli addii mai ribaditi

le tracce delle tue mani nelle mie tasche

quando cammino in avanti

e la sagoma di un cappello mai ritrovato

che ora è utile alla mia memoria di tormalina

quando non riesco a dar forma a un pensiero

che mi somigli.

Io proseguo, priva di nome

attendo che chiami l’ora del nostro battesimo,

la sola deputata all’inesistente

che pure impone la prima eco.

* * *

Domarsi

Mi è cara l’inesattezza

che consente l’estensione del margine,

mai del tutto presente dove termina il sole.

Cancello dal mio capo il suo tratto ogni sera

e sciolgo i capelli

lungo le spalle e il volto

perché coprano gli occhi,

– che non entri luce se non può essere accolta -.

Dimentico i nomi e tutti i proverbi dunque,

per trovarli nuovamente incisi

sulla fronte il mattino seguente,

come marchio di tacito rimprovero

che impone il suo tocco di giada

ma è sufficiente che io taccia,

senza mescolare volti e risa

che non mi appartengono

è sufficiente mentirsi

verità nascoste, rifiutarsi di dire altro

e sostenere lo sguardo del nulla,

col mento che svetta e gli occhi ben desti

per dire niente, per occupare spazi incolumi.

   

L’eterna stupidità, la sacra assenza

non è che sogno simultaneo.

* * *

Nelle poesie di Flavia Cidonio, tratte dalla raccolta Città fantasma (Edizioni La Gru, 2022), la narrazione poetica sembra emergere all’interno dei versi con delicata prepotenza del tema della memoria, del ricordo cui ora fare ritorno ora invece lasciarsi alle spalle; tra momenti rappresi nel tempo in cui un raggio di luce può entrare, svelando all’io le sue verità e ricordi volutamente obliati e sfocati, salvo poi notarne il ritorno costante e rinchiudersi a forza in un’indifferenza opaca e, soprattutto, afona.

In questo spazio si nota sin da subito un ritmo marcato, a partire dall’incipit tagliente e ben definito di ogni componimento che detta poi ai versi successivi la loro stessa cadenza da seguire, evolvendosi al loro interno attraverso pause scandite con efficacia. Così, in questo sentiero attraverso il quale l’io decide di proseguire e fatto di inesattezze, sfocature e anonimati comunque sembra risuonare, forse, un’eco: la parola che nomina le cose, che mostra tramite metafore e similitudini immagini forti e dense, esatte e ben definite. È in queste parole che sembra si apra un’attesa per un’ora nuova, nella quale recuperare e recuperarsi da un’assenza che, nonostante voglia essere taciuta, viene cantata.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 18 Luglio 2022

Tre poesie di Dario Grillo

L’abaco irriducibile del sacerdote

Grammi di luce – ridesta

veglia grama

nell’abituro che sussurra – sepoltura

   

Cotonato in quel

tessuto grembo

   

innesti di viscera

clone di filogenia magra

neve che sisma

la carne di invertebre

ed il tronco che muffa

   

Con tarso

vestire l’innervato obbrobrio

irrobustendo la cornea

non la chiude più

a quei grammi rauchi

a reggere

a reggere

a remigante suono di nutazione

del truciolo corrotto

foraggia la radica

   

Questo inciso deformato dal buio

è corpo

Viene forgiato dal voltaico tocco

al tatto graminacee

che cuciono l’impronta

   

come luce nel passato

si fa limpida torba.

* * *

Sacchi di salme gettate dalla prua di un veliero che circumnaviga la galassia.

Un tenue buio viene

sulla gaia guglia

quando

i nembi asciutti sono

riparo di fumiganti lembi

Prima di essere

ratifica della vita

oltre il respiro

   

E l’esodo del polline

patogeno calco di un passaggio segreto

Stagione

nei borghi

seppellita

   

Cadaveri eterei – in mani di uno straniero

i palmi dischiusi

ilari ai sospiri del borgo –

Nel vento, nido dell’uria

nell’aria sono fecondi agrumi

Mortifere ifantrie

nell’aria posate

come coperta dell’aviaria pelle

   

bramano le onde

sul Filo di sale

una cabrata per lasciarsi

   

alzano e si abbassano –

l’addormentata superfice

trapassano.

   

Questi abissi rischiarano

   

un aborto che respira

che ha smesso di trattenerlo

   

in questi abissi

nuotano.

* * *

L’ermetico comprendere

A volte capita

di sentirmi un Diavolo

diverso; assieme alle parole

Siamo;

Se alcune non le capiamo

anche fino il pozzo di esse

noi le lasciamo inosservate

davanti ad uno specchio, appannato

dal freddo distacco

della comprensione

   

Ma il peggio arriva quando

le parole sapute, cadute vanno

nel lugubre pozzo del dimenticatoio

nell’isolamento insulare

spettante a ognuno di noi

Siete responsabili di quelle morti

allora

di quei mari tumidi di sporco

   

Lì si!

che nell’ebbro scompenso, in voi

ribolle ogni frugale delirio

che già da tempo frugava in voi

dal penetrale occhio acritico

che ciba la vostra sommossa all’analisi,

per non ricorrere più all’oblio,

a quell’albero della radice, cui

asportate la corteccia

   

Una parata di diavoletti che

la lingua si masticano, le altrui anche

masticano, nella speranza che

sia ancora vivo il sapido

del termine setacciato.

   

Esercito di arcangeli sospesi dalle

fila adamantine

di un glossario logorato

in desuete demorfologizzazioni,

l’eco di una prosa

in una lingua aliena

l’urto di un sarcofago profanato.

   

Siete antifrasi

per debellare – o

debellarvi – il vostro credere

Una nuvolaglia di fitte nubi

sguarnite di ogni massa

Come un novilunio acceso

non si conta il novero degli astri

delle acmi inesplose

dagli anni privato – il cielo

è pregno d’invisibilità

   

Insorge un’iride vitrea

che osserva epitaffi

È un ricatto d’orgoglio,

   

giace sudicio terriccio

in quella calotta mefistofelica

   

una rovina splendente

ma diroccata già

al culmine dei suoi drammi

Si nasconde in quell’anfratto deontologico

l’epigono grigio

che riprende

                      [a camminare

                      [a sgranchire

il disco del collo

                      [a tirar su

la crapa

   

ed assorbito

da ogni indecifrazione

Rimesta fra ciotole di scarabei

e deficiazioni

Come fosse cottimo – registro numismatico

erario che

non ha scrivania – col solo

Latrato

pronunzia le libbre

di inabitati sistemi monetari.

   

Dal promontorio, Empi

gli scettici sguardi

se per un attimo si strizzano,

quel tipo laggiù – gli pare essere

quel Diavolo della novena – più volte

sillabata

sgomberando il verbo*

*dì·h·o

* * *

Nella poesia di Dario Grillo si nota sin da subito un’immersione volontaria all’interno di una sorta di crisi sistemica del linguaggio avvertita dall’io con profondità, tra punte di netto ermetismo e giochi linguistici variegati: dall’assenza prolungata fino all’estremo della punteggiatura all’accostamento quasi compulsivo di termini semplici accanto a quelli aulici e/o maggiormente ricercati, creando una polifonia linguistica avvolgente.  Da questa tensione si origina quindi un ritmo ruvido, spesso incostante a cui fa eco a volte una forma dei versi quasi esplosa e frammentata sullo spazio bianco e indefinito del racconto: entrambe le cose sono espressione di quella stessa destabilizzazione della parola che guida la narrazione poetica dell’io man mano strofa dopo strofa.

Eppure, tra un’assonanza e l’altra, si riesce a cogliere una melodia cha sembra far da guida a un viaggio alla ricerca della parola stessa ora apparentemente perduta, seguendone l’eco tra immagini allucinate, metafore pungenti e cadaveri di parole cadute negli abissi dell’oblio e del disuso. Tuttavia, anche gli abissi forse rischiarano ciò che di dimenticato può essere recuperato e richiamato a sé.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 13 Luglio 2022

Tre poesie di Marco Levi

La ragazza trovata all’alba

le sneakers quasi sfiorano

la terra, la testa

non si vede

occlusa da foglie.

* * *

Il Bosco verticale mi fa piangere

non è un bosco normale

è un bosco fantasma.

Il Bosco della droga non respira

discende

fra rami di suini.

Rogoredo è più bromuro.

   

Boschi che si osano su Marte

boschi abbandonàti ai suicidi;

sradicato per le rètine l’Adàm

senza limite l’andare.

   

Oh, profumasse ancora il bosco

la corteccia la rugiada

l’elettrone nello stagno

il ragazzo

e la fanciulla fra le foglie

cellule vicine

a dove si è sbocciati.

* * *

Satana brucia gli alberi di notte

perché gli alberi respirano padre

madre degli umani tutti separa

seziona svergina riserve liguri

che poche ci canteranno cicale.

   

Estirpa l’ossigeno come erbaccia

totem pianta nella terra il suo big bang

fosforescente forte soffocare.

   

Lascia sui sentieri i suoi escrementi

fazzoletti per il bosco di San Rocco.

* * *

Nelle poesie di Marco Levi emerge sin da subito una certa predisposizione a giocare con la costruzione dei versi, andando a creare un percorso particolare. Da qui, ad esempio, l’assenza prolungata della punteggiatura che va a legarsi ad una scansione di ogni singolo verso quasi a scatti, ritagliando ogni volta dei brevi momenti di lirismo ognuno dei quali perfettamente a sé stante: come se, all’interno dei vari componimenti, si inanellassero uno dopo l’altro degli haiku non ordinari. A volte la tensione dell’autore a forzare il ritmo e la sintassi poetica lo spinge ad arrivare, in particolare al giro finale delle strofe, a momenti di ermetismo nel frenetico accostamento ritmico di nomi, avverbi, verbi etc. gettati sulla pagina bianca in sequenza ininterrotta.

D’altra parte, nel racconto poetico vero e proprio spicca l’elemento naturale e, in particolare, quello del bosco utilizzato come luogo e metafora di storie dure e sofferenti, i cui elementi vegetali ora celano con dolcezza ora invece svelano in maniera cruda. È questo bosco a cui l’io però guarda con nostalgia come immagine di una purezza incontaminata e lontana nel tempo e ora, forse, irrimediabilmente corrotta dagli eventi che vi si svolgono all’interno e dei quali l’io stesso decide di farsi sofferente cantore: attraverso il canto il bosco comunque rimane, tra ricordo e sofferenza.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 30 Giugno 2022

Tre poesie da La scoperta del fuoco di Guglielmo Aprile

Il segreto degli aquiloni

Non al mondo appartieni ma a una favola,

tu a diverse altitudini

viaggi rispetto al traffico e alla folla,

e sai che sogni cullino

gli aquiloni dormienti sopra i tetti:

tu non abiti i nostri

cunicoli scavati nella cera,

tu non indossi questi

severi brutti abiti di pietra,

ma dall’incantesimo nata

di una notte d’agosto, tu figlia

dei rami che alle prime ore un brivido

di voli squilli odori

e cicale impazzite

a farti festa scuote;

   

tu sai di quale reame segreto

vadano in cerca i pollini

e tutte le cose che viaggiano

sospese a mezz’aria e non hanno

quasi peso, e alle rotte

del vento ad occhi chiusi si consegnano.

* * *

Ti porta lo scirocco

Non mia né di nessuno, è allo scirocco

che appartieni, e non alle mie mani

ma alle cavallerie del sud che l’oro

dell’estate saccheggiano dai campi

e in scia alla loro fuga lo disperdono.

   

E ascoltandoti apprendo un’altra lingua,

giorno per giorno: non quella del mondo,

ma quella delle conchiglie e degli alberi:

intraducibile, in codice, oscura

a chi non ti abbia mai vista sorridere.

* * *

Tu che sei di ogni alba testimone

Le tue labbra, asse e vertice

delle orbite siderali, e archivio

di miti e cosmogonie; tu precedi

la prima spiga, e schiudi

i cancelli all’estate

quando irrompe e sprigiona fiamme e oro

dalle labbra dell’erba; e nel tracciato

delle nuvole fissi

cardini e punti chiave di una nuova

teologia: è te che tutto ciò

che splenda o voli

venera; ed è la rosa

della tua bocca un tempio

dentro cui un cieco

ogni giorno entra e aspetta che esca l’alba.

* * *

La linea guida principale dei testi poetici di Guglielmo Aprile, tratti dalla raccolta La scoperta del fuoco (Leonida Edizioni, 2022), pare essere quella di un dialogo ininterrotto con un tu sempre presente come funzione principale del movimento delle parole verso di esso. Un tu che spesso si fonde – ogni volta che l’io poetico tenta di definirlo davanti ai suoi occhi – con le immagini e le sensazioni del mondo naturale circostante. Da qui, infatti, scaturiscono immagini idilliache che trasportano la narrazione dei versi nello spazio indefinito e atemporale di una rivelazione: è proprio grazie al passaggio promesso e atteso di questo tu che, dischiudendo nuovi luoghi in cui ritrovarsi in altrettanti nuovi modi, l’io apprende una nuova lingua, nuove parole per dire le cose all’interno di un’intensa ed erotica fusione con la natura.

In questo contesto, spiccano i numerosi enjambements a legare i versi in questa tensione avvolgente assieme ad assonanze interne e inversioni come quasi a scandire un ritmo stabile, ben definito e posseduto con fermezza dall’autore. Allo stesso tempo, questo tu inseguito con le parole ed agognato in tutto ciò che può donare a chi sia testimone del suo passaggio si assesta in una particolare e assoluta dimensione di non appartenenza: né dell’io né di altri ma solo di quell’universo naturale di cui è espressione ed ipostasi tra amore e quasi religiosa deferenza. Così il dialogo cresce e nutre il cammino durante il suo percorso tra parole ed immagini.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 16 Giugno 2022.

Tre poesie da C’è un sacco di spazio sul fondo di Elisa Malvoni

15:00

È tutta mia

la penultima fermata

a cui si arriva

per asfalti di periferia.

È ferma l’afa,

la agita la corriera

sbuffando in ripresa

sulle erbe aromatiche

appese alla via stretta.

Una nube grigio-nera

si rarefà sulla piazzetta,

per rispetto all’angelo

che suona la trombetta

dal frontone della chiesa.

   

Mi riconosci

nel passo della fame,

nello zaino sfondato,

nella cartella trasparente

e nello schizzo lì dentro

di un brutto disegno

pur sempre da completare.

Marcio su casa

col peso di me stesso

sulla schiena curva,

nei pantaloni la camicia

e la cintura contraffatta

che mi tiene in vita.

* * *

Da Recanati

È troppo facile affacciarsi

e farsi ispirare

da quel collage di Belpaese

che scarta le periferie di Milano

o le industrie di Varese.

   

Nei territori del Po

è fortunata la scrittrice

che ha una stanza tutta per sé

dove stiparvi derrate immaginarie

come materie prime d’importazione

per le sue poesie o un memoriale.

* * *

Come una bambina che fa sul serio

Sono seria come una bambina

mentre prova a fare la scrittrice.

   

Ho preso un quadernetto a righe,

gli occhiali e diverse matite,

ho una scrivania tutta mia,

la luce sopra, il cassetto sotto,

lì dentro un vocabolario fine

e alcune leggi dell’universo.

   

Gioco a ricomporre con quel poco

le parole della cosmogonia.

* * *

Nella poesia di Elisa Malvoni, tratta dalla sua recente raccolta C’è un sacco di spazio sul fondo – Reportage poetico dal piccolo (Edizioni Bette, 2022), si srotolano davanti agli occhi del lettore una serie di elementi del mondo reale riportati in maniera diretta e semplice, a fermare immagini ben definite di una vita metropolitana e incidendo con delicatezza al loro interno sogni, sofferenze interne e mancanze. In questo spazio poetico prevale un forte uso di assonanze spesso alterne, una musicalità quasi ad incatenare un verso dietro l’altro al ritmo di questi squarci di vita che l’io narrante propone ogni volta.

La quotidianità del racconto porta dentro di sé alcuni elementi interni interessanti, come la citazione di Virginia Woolf, «[…] è fortunata la scrittrice / che ha una stanza tutta per sé […]» dal suo omonimo saggio: da qui sembra dipanarsi così la ricerca di un proprio spazio, un proprio angolo di mondo in cui trovare le misure di se stessi e rimanervi. In questa «stanza tutta per sé» c’è quindi la possibilità di usare la poesia come gioco – tuttavia serio – per ricomporsi, scavalcare la mancanza (anche a dirsi e dire le cose) di un luogo che ispiri la parola di cui si percepisce sempre l’esclusione periferica: è la vita ai margini che prova a darsi forma nelle sue mancanze scavate nel tempo della ricerca di sé.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 9 Marzo 2022