Quando prendo in mano un libro di poesia o, più raramente, provo a scriverla, non lo faccio mai per un semplice piacere di lettura o scrittura. Questa affermazione potrebbe correre il rischio di investire il rapporto che uno ha con la poesia di una carica morale, quasi religiosa e zelante, la quale spesso tenta (e a volte lo ha fatto rendendo le cose sin troppo confuse) di insinuarsi nei ragionamenti attorno all’atto poetico. No, nessuno zelo religioso o missione didattica-morale: semplicemente l’attestazione di quello che la poesia inevitabilmente contiene in sé al di là di ogni discorso che non voglia attestarsi sulla sola superficie del tema.
La poesia, dunque, è inevitabilmente una cosa seria. Perché ha a che fare direttamente con noi e il modo in cui ci relazioniamo con il mondo e chi lo abita, assieme allo spazio che occupiamo di solito nel nostro vivere. La cosa potrebbe sembrare una tautologia ma nasconde dietro, a una discussione più approfondita, tematiche le quali spesso chi si occupa di poesia tarda a porsi o lo fa solo a metà. La poesia è una cosa seria, dicevamo. Spesso è anche difficile, e questo può spaventarci nell’avvicinarsi ad essa, a coltivare un rapporto con lei nonostante le asperità sul cammino ma possiamo tenere a mente come viatico fedele le parole di Rilke: «[…] è il difficile che ci è stato affidato, quasi ogni cosa seria è difficile, e tutto è serio»[1]. La poesia è seria perché, al contrario della letteratura in genere, non ammette finzioni retoriche o compromessi d’autore: se infatti da un lato l’atto della scrittura porta sempre con sé, inevitabilmente, una parte ineludibile di finzione, dall’altro la poesia (quella vera) si trova curiosamente ad attestarsi, quasi senza averlo mai chiesto o cercato, in una sfera della parola puramente essenziale nel suo dire le cose. Questo è, detto forse in modo non così essenziale come il tema trattato, il discrimine fondamentale che separa la poesia di netto da ogni altro tentativo di scrittura esistente. Il suo esempio e contrario più noto e significativo è il romanzo: nessuna opera all’interno del genere romanzo, nessuna storia raccontata attraverso la sua forma può svilupparsi, evolversi e trovare una sua narrazione definitiva senza venire a patti con un certo grado di finzione che l’autore è costretto in qualche modo ad immettere all’interno della stessa. Questo perché il romanzo, come altri generi e tentativi letterari, è un atto di scrittura a posteriori che ha a che fare strettamente con un piano razionale ben definito: dei suoi personaggi, delle loro story-lines, del modo in cui esse vengono raccontate e suddivise attraverso le pagine etc. C’è dunque un grado di rielaborazione retorica, di riempimento di spazi vuoti tra eventi e allusioni – anche nel caso esse fossero le più sincere e aderenti possibili alla vita del loro autore o di altri – che una struttura “opaca” come quella del romanzo richiede e non le si può sfuggire, mai. Inutile pensare all’immagine romantica di un Kerouac (che chi scrive qui ama profondamente) che stende sotto effetto rapsodico di benzedrina in tre settimane sul suo celebre rotolo On the road, calando al suo interno le sue avventure personali con Neal Cassady in lungo e in largo per l’America di fine anni ’40: anche in quel caso, anche a credere sul serio all’evento leggendario della punta di diamante della beat generation, sono intervenuti per Jack pseudonimi, rielaborazioni di ciò che aveva vissuto, invenzioni e finzioni tra una riga e l’altra per completare la forma del romanzo che lo avrebbe consacrato alla fama letteraria mondiale: la differenza tra i suoi primi romanzi giovanili e questo (e i successivi) sta semmai nello stile che racconta una storia che è comunque frutto di un compromesso letterario e retorico, non nel liberarsi (completamente) di quel compromesso.
La poesia invece evita e salta per sua natura il compromesso che sembra legato ontologicamente alla natura della letteratura. Questo perché la difficoltà ossimorica della poesia, alla nostra comprensione spesso troppo razionalizzata dalle nostre strutture letterarie “romanzesche”, sta proprio nella sua esagerata, radicale e indiscutibile semplicità di fondo: la poesia ha l’unico e solo scopo di dire ciò che dice senza altro di mezzo, e questo alla nostra mente abituata a trovare un compromesso nella comprensione di noi stessi e del mondo circostante può risultare di una difficoltà – e paura, forse – quasi disarmante. Forse è anche per questo che, spesso, nella storia della letteratura, chi ha scritto poesia ha sempre faticato o evitato di scrivere romanzi o simili: se il poeta in tal senso riesce nel suo piccolo a cogliere e farsi interprete della natura radicalmente semplice della poesia, senza compromessi di sorta, può risultare estremamente fuori portata per lui ricondursi poi di nuovo tra le fila della finzione letteraria. Penso ad esempio al progetto mai portato a termine da Leopardi di stendere un suo personale romanzo, rimanendo invece profondamente legato fino in fondo alla parola poetica[2]. Questo come altri esempi potrebbero confermare la natura assolutamente non schematizzabile della poesia all’interno di categorie letterarie che, di solito, hanno buon gioco nel portare a compimento un’opera di scrittura che potrà sempre e solo in parte toccare la superficie dell’esistenza con mano: non che non lo faccia o lo faccia poco (se il romanziere o chi per lui ha talento) ma semplicemente non potrà mai farlo del tutto, anche al suo massimo grado di espressione; un buon 15 % (o meno, chissà) di finzioni e compromessi rimarranno sempre adagiati sul fondo del distillato che l’autore ha preparato per noi, anche con tutta la sincerità letteraria possibile la quale noi non potremo non tributargli e apprezzare gustandolo tra un sorso ed un altro.
Fatta questa necessaria distinzione, resta da chiedersi allora se la poesia abbia a che fare con categorie d’esistenza totalmente a parte rispetto al resto della letteratura. La risposta è di fondo affermativa, ma anche qui corriamo subito il rischio di cullarci nel sempre fascinoso ideale irrazionalistico della parola poetica: il poeta allora è un rapsodo che spegne il cervello mentre scrive, invaso dallo spirito del mondo come gli antichi? L’idea come detto è tanto affascinante quanto (se non falsa) perlomeno pericolosa. Se non altro perché la poesia trova la sua distinzione dalla prosa “ordinaria” (e in primis da quella del romanzo) proprio attraverso alcuni suoi precisi e identificabili mezzi tecnici e, quindi, razionali che hanno a che fare con l’ars e non solo con l’ingenium del poeta: scansione metrica, rima (per chi la usa), assonanze, enjambements, anafore etc. Ma allo stesso tempo questa tecnica ricercata dal poeta non cade sotto l’egida di uno stretto dogma letterario: non si scrive poesia solo in rima, appunto, né si usano per forza anafore o simili ma la ricerca di determinati mezzi tecnici ed espressivi che razionalmente il poeta insegue nasce dalla musicalità su cui la parola poetica si innesta, che non è – come per il romanzo – compromesso letterario dal quale non si scappa ma fondamento ontologico della poesia stessa. La poesia è una musica, un canto, che dice le cose nella loro pura semplicità, alludendo ad esse: è in questa allusione – spesso difficile, “oscura” ed ermetica ma mai priva di senso – che la poesia disvela ciò che dice.
Anche per il poeta, come per il romanzo, la scrittura può avvenire a posteriori dell’esperienza ma quel ritorno distaccato, razionale, sul nucleo vitale cui la poesia allude trova sempre il suo corrispettivo nel momento di puro e semplice disvelamento che la parola poetica dipinge di fronte agli occhi del poeta. Come scrive Owen Barfiel in Poetic Diction – opera che può essere presa, a mio avviso, quasi come un vademecum poetico e curiosamente non ancora tradotta qui in Italia – ciò che distingue il poeta moderno dal (rischioso, come detto) rapsodo antico è proprio questo intervallo che interviene tra il momento dell’ispirazione e quello più puramente razionale che avviene a posteriori: nel corso dei secoli secondo il filosofo inglese l’intervallo tra i due «mood»[3] si sarebbe ridotto sempre di più, creando un’oscillazione tra i due stati nella mente del poeta continua durante l’atto della scrittura. Questo ci dice che, in altre parole, nella poesia il principio puramente razionale e quello che qualche riga sopra definivamo semplice, essenziale nel disvelare le cose non giungono mai per la natura poetica stessa all’impasse che invece accade altrove nella scrittura: la funzione della poesia è di dire le cose, non di raccontarle attraverso forme fittizie frutto di compromessi con il reale. Le sue forme, la sua tecnica, sono al contrario frutto della sua stessa natura elusiva (verso la scrittura in sé) ed allusiva (verso il mondo e le cose).
Se allora la poesia disvela alludendo, ed evitando compromessi e finzioni, resta da chiedersi quale che sia il motivo di fondo. Difficile trovare una risposta ma non darla rischierebbe, di nuovo, di rimanere in quell’alone misterico non meno dannoso alla comprensione del tema. Possiamo prendere a prestito allora le parole di Heidegger, che meglio di altri si è avvicinato all’essenza della questione: «Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere […]»[4].
Il linguaggio, nella sua forma poetica, è il mezzo attraverso il quale l’essere, il mondo e le cose, trovano la loro vera e pura manifestazione davanti all’uomo. Il poeta dunque, di per sé, non inventa nulla in questo senso: ma ciò non va inteso come una diminuzione del suo ruolo nel mondo, quanto piuttosto come la vera essenza del suo poetare, ovvero disvelare attraverso la parola (per sé e per gli altri) l’essenza stessa dell’esistenza. Detto con le parole – non lontane sul piano filosofico – di Barfield, la poesia e il poeta che la scrive hanno il ruolo centrale di ricordarci «the before unapprehended relations of things»[5], che nel nostro cammino storico di estrema razionalizzazione abbiamo ben presto dimenticato. Se al tempo dei rapsodi antichi, o ancor prima, l’uomo per il filosofo inglese era davvero a contatto con le cose, nella sua evoluzione è intervenuto questo distacco tra principio poetico e principio razionale. In tal senso, è proprio e solo la poesia, negli innumerevoli tentativi dell’uomo di narrare con le parole il mondo e la sua vita, l’unico mezzo che riesce a correre parallelamente a quella razionalità fatta di finzioni e compromessi senza mai fondervisi: la sua forma è parte integrante del suo dire, non aggiunta a posteriori completamente separata dal suo nucleo centrale. In altre parole, e avvicinandoci alla conclusione, la poesia grazie al suo potere allusivo riesce in quello dove altri tentativi invece si fermano: svelare con estrema semplicità e chiarezza l’esistenza che abitiamo e lo fa attraverso una forma, una tecnica che, al contrario del romanzo o altri generi, è il ritmo, il sottofondo musicale attraverso cui avviene quel disvelamento ai nostri occhi.
Quando allora leggiamo o scriviamo poesia, non stiamo solamente coltivando un piacere estetico o culturale, o poetico di per sé: l’unico principio poetico esistente infatti è quello che riesce, in un modo che forse ancora oggi ci sfugge in buona parte, a metterci in contatto con ciò che ci disvela davanti attraverso le parole. Non sarà un mistero della fede o un atto magico, ma nella sua forma riconoscibile e concreta ottiene forse il loro risultato.
- Paolo Andrea Pasquetti, 16 Novembre 2021
[1] R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, traduzione di L. Traverso, Adelphi Edizioni, Milano, 1980, p. 31.
[2] Sul tema, rimando a G. Leopardi, Scritti e frammenti autobiografici, a cura di F. D’Intino, Salerno Editrice, Roma, 1995 e a F. D’Intino, La caduta e il ritorno – Cinque movimenti nell’immaginario romantico leopardiano, Quodlibet, Macerata, 2019, dove l’autore dello studio interpreta e ragiona in entrambi i testi sul rapporto tra poesia e romanzo per Leopardi, compiuto e incompiuto e sul significato della poesia per il poeta recanatese.
[3] O. Barfield, Poetic Diction, A Study in Meaning, Faber & Gwyer Limited, London, 1928. pp. 105-7.
[4] M. Heidegger, Lettera Sull’«Umanismo», a cura di Franco Volpi, Adelphi Edizioni S.P.A., Milano, 1995, p. 31.
[5] O. Barfield, Poetic Diction, p. 47.
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