Mariangela Gualtieri e il gesto amorevole della poesia

A leggere la poesia di Mariangela Gualtieri si ha quasi sempre l’impressione di aver a che fare, probabilmente, con qualcosa di vivido e ben definibile al tatto, una corporeità delle cose narrate che in qualche modo sentiamo di poter percepire sulle dita, anche dal filtro lontano della pagina scritta. Forse perché il racconto che spesso si ritrova nella sua poesia parte sempre dall’esplicazione estremamente efficace di un dolore che sta ruvido sotto la pelle e monta e rincara ogni volta la sua dose, uno «stare chiusi al sangue, non volare»[1] che tuttavia non rimane un grido fine a se stesso: questo perché, al contrario di quello che spesso si incontra in una narrativa (poetica o meno) del dolore, quest’ultimo trova dentro di sé per l’io che scrive e lo dice la sua ragione di vita:

Grazie di questo piangere

senza il quale sarei una cosa secca,

immota.[2]

Il dolore, dunque, è ciò che in realtà scuote un’esistenza che si scopre ancora capace di sentire le proprie emozioni, specialmente le più sofferte: eppure è proprio in questa sofferenza che infatti il sangue si scalda e torna a scorrere tra le vene, a pulsare sotto l’impulso delle ferite interne od esterne che premono sulla vita, riportandola a un ritmo che ancora le permette di battere. Per dirla con Leopardi, insomma, «Il nuovo dolore in tal caso è come il bottone di fuoco che restituisce qualche senso, qualche tratto di vita ai corpi istupiditi»[3], e questo da il senso di una poesia consapevole della sofferenza che racconta perché riesce a percepirne il fine vitalistico ad essa intrinseco.

In questo ordine di cose si situa nella poesia di Mariangela Gualtieri la natura che, con la sua presenza fortemente intrecciata alle parole e alle immagini, assume il ruolo di un luogo dove trovare ristoro, ascoltare umilmente e imparare quello che avviene nel mondo, quasi come una cura a lungo rimasta sopita tra le trame vegetali o marine che ritorna ogniqualvolta l’io si appresti umilmente a chinarsi di fronte ad esse: «Inquieta andavo all’abetaia a portare il mio solito peso, e dopo la salita furibonda, dentro un riposo di scaricatore che ha finito, coccolata dalle antiche cime, non ero più in quel grumo inquieto […]»[4].

Così la natura, lo scorrere della vita pulita nel mondo riappacifica un’umanità scossa dal dolore – positivo, nel suo essere una spinta ad avvicinarsi e ricongiungersi alla prima – in un’ottica quasi sapienziale, nel suo insegnamento stabile e duraturo («[…] e insegni una legge / disgiunta, e reciti il mantra del mondo»[5]). Questo sembra portare lentamente, con i tempi dei cicli naturali, a quella cura che la poesia accoglie e fa sua tra le parole che la dicono: un medicamento caratterizzato dall’amorevolezza dei gesti e delle immagini del prendersi cura di sé, ritrovando la vita:

[…] ode

un tutto incompreso che calma

si accuccia nel calmo e guarisce

guarisce d’un alto guarire

scompare nello scomparire

e resta in quel pane

accolta, raccolta – lì resta.[6]

La caratteristica di questo gesto amorevole della poesia, della sua cura, è il modo con cui viene narrata, raccontata con parole del corpo («si accuccia nel calmo»), immagini dure o dense da poter toccare, sentire, assaporare e odorare («e resta in quel pane»). Questo avvicina alla sofferenza ora ricomposta e risanata, la fa sentire propria e condivisa nel mondo: una sofferenza che, s’è visto, viene narrata da parole ugualmente corporali, fatte di cose corpose al tatto e agli altri sensi nell’atto di istituire un solco comune tra dolore e gesto della cura proprio in virtù del ruolo del primo come motore di innesco della ricerca della seconda. In questo avvolgimento narrativo e poetico la natura sembra fare da tramite per entrambi, donando a chi decide di ascoltare la sua lezione antica la consapevolezza dei due concetti e le parole con cui vengono esplicati. Essa infatti non solo insegna la cura ma, prima ancora, la coscienza del dolore che necessita in ultima istanza la prima:

Oggi sentiamo il suo carico dolce

che un poco ustiona e un po’ canta

indolora innamora

e asseconda la danza battente

di tutto il sangue.[7]

L’immagine della natura, del mondo nel suo scorrere pone di fronte all’io il suo doppio insegnamento doloroso e dolce («indolora innamora») che trova espressione nella poesia che lo racconta. Così dolore e amorevolezza della cura coincidono e la seconda alla fine abbraccia e comprende, giustificandolo, il primo in un gesto che accoglie e dice ciò che può durare.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 25 Novembre 2021

[1] M. Gualtieri, Senza polvere senza peso, Giulio Einaudi editore s.p.a, Torino, 2006, p. 7.

[2] Ivi, p. 13.

[3] G. Leopardi, Zibaldone, edizione di riferimento in Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze, 1921; versione e-book tratta dalla serie Letteratura italiana Einaudi, 2000, 2160-2161. Si veda anche a proposito F. D’Intino, La caduta e il ritorno – Cinque movimenti nell’immaginario romantico leopardiano, Quodlibet, Macerata, 2019.

[4] M. Gualtieri, Senza polvere senza peso, p. 36.

[5] Ivi, p. 16.

[6] Ivi, p. 15.

[7] Ivi, p. 37.

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