
Non voler attribuire al gioco del calcio, il football o – per usare un termine foneticamente più coinvolgente – fútbol quell’elemento poetico che gli è innato è un lusso che solo il letterato chiuso nella sua alta torre d’alabastro può, forse, permettersi. Anche di fronte al cambiamento radicale che questo sport ha subito (in negativo) in maniera vorticosa nell’ultimo decennio tra esagerazioni di mercato e un divismo spasmodico e incontrollato di giocatori, tecnici e quant’altro, rimane ancora il suo elemento corporeo, la performance atletica e tecnica che, nel momento preciso nel quale viene eseguita sul campo di gioco, esprime quella fusione tra corpo e mente, linguaggio e azione fisica che coinvolge emotivamente e poeticamente lo spettatore in maniera ineludibile. Questo non è un tentativo apologetico nei confronti del calcio (tutt’altro) ma prendere di petto la questione della sua innata poeticità è centrale per quello che andremo a dire successivamente. Per il letterato o meno profano del tema ci viene in aiuto Pasolini, che esprime il concetto con una certa chiarezza:
Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato. Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto. I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”; e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.[1]
Il giocatore sul campo da calcio riesce, dunque, ad articolare ed esprimere un vero e proprio linguaggio che lo spettatore riceve, incamera dentro di sé e comprende – più o meno – a suo modo e secondo il modo del calciatore stesso. Quello che avviene, in sostanza, quando si legge una poesia. E Pasolini, infatti, si spinge oltre: «Ci sono nel calcio dei momenti esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. […] Anche il “dribbling” è di per sé poetico»[2]. C’è, quindi, poesia nel calcio: una poesia che ha a che fare, probabilmente, proprio con quel momento di unità tra corpo e mente in una danza che attraverso le sue mosse, i suoi dribbling e colpi inaspettati svela agli occhi di chi li “legge”, li assorbe, un lato del mondo finora non preso tutto sommato in considerazione. Insomma, interviene durante la visione del fútbol nella sua veste poetica, più autentica, quello shifting continuo tra ispirazione e razionalizzazione a posteriori[3], quel momento di aggressività dei sentimenti aggrappata alla rete che si insacca seguita dalla lucida rielaborazione dell’atto appena concluso. Un rapimento estatico che, seppur in forme sportive differenti, afferrava anche Leopardi di fronte alle gesta del suo vincitore nel pallone, tanto da fargli rimembrare l’ebbrezza di una vita alla giornata, oltre la noia e infangata dentro i rischi di ogni giorno:
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
beata allor che ne’ perigli avvolta,
se stessa obblia, nè delle putri e lente
ore il danno misura e il flutto ascolta;
beata allor che il piede
spinto al varco leteo, più grata riede.[4]
La comunanza tra calcio e poesia – nella sua forma linguistica a noi più conosciuta – nell’aprire momenti vitalistici assoluti in grado di afferrare le nostre corde più profonde è quindi stata notata più volte da chi, il poeta sulla carta, lo fa o lo ha fatto di mestiere. È, dunque, nell’osservare il gesto atletico e tecnico del giocatore che noi percepiamo il suo dire poetico, il suo tentativo (più o meno consapevole) di esprimere la sua visione delle cose al momento del tocco della palla che può colpire i nostri sensi e rimandarci a uno stato di connessione con quell’attimo, impastando insieme corpo e psiche.
È proprio qui che interviene, a fare da intermediario fisico e non (come la carta tra poeta e lettore), il telecronista con la sua narrazione. Già, perché nell’epoca della fruizione audio televisiva del gioco del calcio avviene quella curiosa forma di aggiunta narrativa che è la telecronaca sportiva. Spesso, come il filologo dietro un’edizione di successo, dato per scontato e mai analizzato del tutto, il telecronista assume il ruolo fondamentale di narratore del gesto poetico che lo spettatore testimonia assieme a lui: in altre parole, aggiunge al linguaggio fisico – ripensiamo a Pasolini – del calciatore il linguaggio verbale vero e proprio per parafrasare (tentando di mantenere il più possibile il nocciolo poetico al suo interno) l’atto sportivo trasmesso dallo schermo agli occhi del telespettatore. L’onere del buon telecronista è, dunque, cosa non da poco: cercare di camminare parallelamente all’evento che osserva e rendere a parole ciò che esso rappresenta in sé stesso. A seconda del tipo di telecronista che si trova dietro ai microfoni potremmo avere, nel peggiore dei casi, una mera parafrasi molto prosastica e molto poco poetica di quello che vediamo o, nel migliore, una fusione quasi totale del linguaggio verbale del telecronista con quello fisico del giocatore sul campo da calcio tra emotività pura e abilità discorsiva sopraffine: è lì la poesia doppia, curiosamente e indescrivibilmente, sé stessa e lo spettatore non può che beneficiarne. Il telecronista è dunque il narratore aggiunto che, a seconda dei casi, può scegliere di essere mero traduttore del gesto tecnico o suo cantore posseduto come un rapsoda: in genere la maggior parte della telecronaca staziona in una sorta di via di mezzo ad oggi, tra tanti urlatori e pochi narratori o semplici accompagnatori delle azioni.
Qui si inserisce con prepotenza Lele Adani, rapsoda autoeletto in questi campionati mondiali di Qatar 2022 del fútbol dell’albiceleste e, neanche a dirlo, del suo uomo par excellence all’ultimo grande palcoscenico internazionale: Lionel Messi. La telecronaca di Adani, in questo senso, aspira ad essere un vero e proprio, instancabile e fedelissimo proemio ad ogni azione della Pulga e dei suoi compagni, conscio più di ogni altro della poesia innata nei piedi del fuoriclasse argentino. Tuttavia, è proprio questa incontenibile necessità di raccontare al mondo la grandezza della poesia del calcio argentino – ancora Pasolini affermava che «Il calcio in poesia è quello del calcio latinoamericano»[5] – che lo porta a un inevitabile quanto grottesco fallimento, una dissonanza stridente nel pieno del canto degli aedi latinoamericani sul campo. Adani si ingobbisce sul microfono, grida con la voce forzatamente spezzata ad ogni singola giocata del suo idolo gettando fuori frasi voluminose e contorte, luculliane, ai limiti del gioco linguistico fine a se stesso, tra slalom tra i cammelli del deserto e il riannodare i fili del proprio destino fino a Rosario. Al suo fianco un posato e sempre più sconfortato Bizzotto, partita dopo partita, che lentamente si arrende alle incursioni del suo infervorato compagno di microfono, riuscendo a comunicare col suo silenzio allo spettatore una sorta di compassionevole invito alla comprensione della situazione. In questi frangenti, personalmente, avverto il problema insito nel commento tecnico di Lele Adani: il suo non è un tentativo vero e proprio di accompagnare l’atto poetico nella sua controparte verbale fino all’orecchio del lettore/spetattore, quanto piuttosto un vuoto riverbero della sua ossessione per il poeta con il numero 10 sulle spalle. In altre parole, Adani non vuole realmente aggiungere con la sua voce poesia alla poesia che ama, tutt’altro: Adani aspira semmai ad essere la glossa erudita dei passi danteschi di Messi, salvo poi inevitabilmente fallire. Questo perché la sua glossa non si risolve nel commento tecnico, ma nell’esaltazione fintamente irrazionale, simulata da una passione certamente genuina ma distorta, del gesto atletico.
Qual è allora la conseguenza, inevitabile e grave per la poetica calcistica, della telecronaca di Adani? Quella, verrebbe da dire piuttosto schiettamente, di asfissiare la poesia del calcio, stringerla con foga tra le mani urlandole in faccia il proprio amore smodato, quasi a recitare la parte del glossatore e critico di fama internazionale dei versi albicelesti. Quella di Adani infatti finisce per essere non la glossa di un erudito della poetica calcistica: semmai, assomiglia di più alla frase esaltata al lato della pagina del commentatore improvvisato, che non coglie e non riesce a trasmettere agli altri la poesia del suo idolo – letterario e non – ma piuttosto nausea il lettore e lo porta quasi a detestare l’opera che ha di fronte. In tal senso, la telecronaca di Adani in questi mondiali che ci ha accompagnato e, con ogni probabilità, ci accompagnerà fino alla finalissima di domenica prossima, rappresenta al meglio ciò che non si deve fare quando si legge e si parla di poesia agli altri: l’esaltazione forzata, la ricerca del tecnicismo tanto cesellato quanto grottesco e senza senso da incastonare nella propria critica esposta agli sfortunati uditori intorno. I cammelli e i maradoneggiamenti di Adani finiscono così per creare una sorta di misticismo sterile che, ad ogni tocco di Messi, umiliano la poesia che traspare dagli strappi del fuoriclasse e la relegano all’angolo delle sue grida grottesche. Lele Adani, infatti – e chiudo – non fa nessuna delle due cose che un telecronista può scegliere di fare quando si siede davanti al microfono di uno stadio: né commenta il gesto poeticamente tecnico (o tecnicamente poetico) né – cosa ancora più rara nelle telecronache di oggi – narra al telespettatore ciò che accade e le storie che stanno dietro a quello che si svolge sul campo. Grida ansimante i suoi commenti al lato della pagina e la poesia appassisce, il canto diventa dissonanza. In questo senso l’adanismo è la perfetta autorappresentazione dell’idolatria del superfluo: nessuna narrazione, appunto, né reale descrizione tecnica ma solo il grido esasperato della pura e strabordante estetica fine a se stessa, che nelle immaginazioni di tuareg nel deserto inginocchiati ai piedi di Messi diventa impacciato caos linguistico barocco, voce strozzata di un (involontariamente falso) profeta invasato. Il fútbol rimane allora inquinato da quella tendenza, tutta contemporanea, della fascinazione per l’estetica antinarrativa che, ad esempio, trova nella serialità televisiva e nella cinematografia in genere la sua controparte nella ricerca del plot twist esagerato e voluminoso, della fotografia lussuriosa e della concentrazione spasmodica sull’unica performance della star al centro di tutto, lasciando alle spalle il resto: non c’è, appunto, narrazione e poetica ma solo il grido autocompiaciuto del regista e dei suoi collaboratori dietro la macchina da presa, come le sgroppate e gli sbuffi vocali del nostro telecronista-vate accanto al malcapitato Bizzotto.
Come vademecum per la finale e le prossime gesta calcistiche che avranno la sfortuna di essere accompagnate dall’asfissia antipoetica dell’adanismo, allora, teniamo a mente le parole di Rilke:
In verità, altro soffio è il canto: un soffio
nel nulla. Un alitare nel Dio. Un vento.[6]
- Paolo Andrea Pasquetti, 15 Dicembre 2022
[1] Pier Paolo Pasolini, Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori, Il Giorno, 3 gennaio 1971.
[2] Ivi.
[3] E torniamo, come abbiamo già fatto più volte qui su Radura Poetica, ad Owen Barfield, Poetic Diction, A Study in Meaning, Faber & Gwyer Limited, London, 1928. pp. 105-7.
[4] Giacomo Leopardi, A un vincitore nel pallone, in Canti, Bur Rizzoli e Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2018, vv. 60-5.
[5] P. P. Pasolini, Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori.
[6] Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo, I 3, traduzione di R. S. Virgillito, Garzanti, 2019, vv. 12-4.