Potessi appartenerti
Potessi appartenerti, terra
meriterei un ricordo, la tregua in fondo agli occhi
e un treno per tornare senza voltarmi indietro.
Terra che non piangi, sul banco del macello
non diffidare mai di queste braccia
per le proteste mute che avvolgono d’inverno.
Ho visto le stagioni offrire la pietà ai rami in decadenza
e il grigio delle nubi cadere sopra i palmi dei bambini
come una preghiera
e ho visto facce scansare la ragione
attese fermate nella gola come spine
e il fango della lingua coprire anche le idee.
Potessi appartenerti
come la polvere che vigila le strade
riposerei in disparte – ai margini del vento –
sicura d’invecchiare.
Tu sei la terra che aspetta le radici.
La gola che divora l’agonia
e il volto dei calanchi icarna ogni perdono
quando le nostre labbra si schiudono nel Sinni
disteso
come il seno di una vecchia.
* * *
Vicoli
In questi vicoli
si aggirano le rughe della gente
come non le avevo mai vedute
ostili
naturali
come il gelo che s’innesta sulla terra.
In questi vicoli sfuggenti ad ogni sguardo
si aggira anche il perdono
e la preghiera si spezza in mezzo ai denti
sfinita
fra un grano di rosario
e una bestemmia.
In questi vicoli insabbiati
come umide trincee
chiudo a chiave le porte
diffidando del tempo
che abbandona
le grondaie
al loro pianto.
Da dietro le finestre
osservandoli riflessa
li sento miei un istante
– talvolta
se il sole si ricorda
che anche loro si cibano di luce
al suono del tuo passo che ritorna.
* * *
Guardando l’orizzonte
Io non so com’eri ieri
terra che fai male, come un lutto.
Se uguale ad ora ti specchiavi nelle pozze
scavando le voci delle vecchie
per renderle infantili come un tempo
quando al buio anche i santi pregavano a rovescio
e i piedi sulla strada sfidavano le scarpe.
Terra d’avara confusione, chi pregherà con te
vuotando i battisteri fino al grembo
non c’è nessuno a ungere le falci tra i covoni
per frammentare il grano a spigoli di sogni
il tanto di invecchiare la gioia e le stagioni.
Maria che è nata qui
ti serve di nascosto ogni mattina
temendo la salita con il gelo
e chiede due monete per le uova e i soliti boccacci
voltandomi le spalle un po’ dubbiosa
per non mostrare il volto
di chi non ha più attese.
Egidio pensa a ciò che non sa dire
e che lo porta via – come la pioggia
poi sorride senza fiato dopo l’orto
ferendomi al ricordo di mio padre
mentre i suoi calli si spaccano stagnanti
piantandomi nel cuore un osso nuovo.
Terra che fai bene, come l’amore.
Io non so cos’è questo formicolio diverso
che mi trapassa lento – succhiandomi la pelle come un
figlio
questo adorare invano che adesso mi appartiene
guardando l’orizzonte così vicino agli occhi.
* * *
La poesia di Marina Minet, tratta dalla sua raccolta Scritti d’inverno (PrinMe Editore, 2017), è vigorosamente narrativa: attraverso il suo susseguirsi dei versi prende con decisione la parola un io intento nel suo dialogo con il mondo e le sue cose nel tentativo di tracciarne una descrizione che, grazie al canto, ridoni senso ai suoi occhi. In tal modo, mediante strofe corpose eppure fluide nei loro versi liberi – talvolta quasi sgretolati nei loro confini visivi sulla pagina – si delinea nei componimenti un modulato gioco a incastro delle immagini: immagini significative e dipinte verbalmente attraverso un non meno pesato uso delle singole parole, giocando infatti con capace manualità nell’accostare termini semplici, schietti, per creare urti e corrispondenze di significati ulteriori.
Così, è questo un racconto poetico denso che trova un sua musica sciolta nelle assonanze e sempre nella scelta attenta delle parole: c’è l’io che guarda la sua terra, il suo mondo, modulando coi versi un suo desiderio d’appartenenza ad esso, un volersi riconoscere nelle stesse immagini da lui cantate. La parola è dunque comprensione e ritrovo, attraverso la quale sentirsi a casa.
- Paolo Andrea Pasquetti, 15 Febbraio 2023