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Tre poesie da Limpida a guardare di Michela Silla

Se perdo te

perdo

   

le braccia nude

e me straniera

sugli abiti stirati;

   

perdo il gioco

di dèi inanimati,

   

il dolore che ride,

la mano sulla testa

a benedire torti.

   

Se perdo te

perdo

   

ago e filo

che mi tengono unita

   

e rabbia nei cassetti,

noia grigia per creare.

   

Se perdo te

che sei il seme,

la prova,

il tentativo malriuscito

di sovvertire

   

e corse a metà

di amori rifatti;

   

se perdo te,

   

mi spargerò sull’avvenire

senza convinzione.

* * *

Ho raggiunto il capolinea,

non ho più vestiti addosso:

vedo il fondo del bicchiere.

   

Trabocca sole

dal palmo della mano.

   

Scompare la paura

di essere abbastanza.

* * *

Chiami cose di vento,

capovolte

in disparte,

col vestito di sole.

   

Chiami tutte le volte

in cui voglio sparire,

   

cadere,

volare.

   

Chiami stanze di libri

dove cerco risposte,

   

chiami argento

e una notte,

una notte d’estate:

   

non so ancora perché,

ma mi vedo ballare

   

con te

   

io mi vedo brillare.


La poesia di Michela Silla, tratta dalla raccolta Limpida a guardare (Transeuropa Edizioni, 2022), si innesta su un dialogo serrato e denso con un tu onnipresente, centro attorno al quale l’io sembra gravitare e scivolare tra le sue traiettorie ellittiche sia suo malgrado sia con affezione ancora resistente, seppur scalfita dal tempo delle cose svolte e, in parte, perdute. In tal senso, il corpo di questo scambio a due – guidato tuttavia da una sola e insistente voce – è dato proprio dalle numerose anafore che inframezzano i versi, ora la verbo della prima persona che cerca e chiama ora a quello della seconda che viene descritta nella sua mancanza: ed il giro voluminoso attorno al ricordo del tu è scandito dalle assonanze che regolano il ritmo delle immagini di volta in volta evocate.

Così il dialogo diventa man mano anche dialogo interiore, tentativo di comprendersi meglio attraverso sprazzi di luce che, tramite le immagini rammemorate, illuminano l’io il quale si (ri)scopre nei propri limiti e contorni, nell’attesa che combacino con quelli di un altro e trovare il  proprio luogo.

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