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Tre poesie da Scritti d’inverno di Marina Minet

Potessi appartenerti

Potessi appartenerti, terra

meriterei un ricordo, la tregua in fondo agli occhi

e un treno per tornare senza voltarmi indietro.

Terra che non piangi, sul banco del macello

non diffidare mai di queste braccia

per le proteste mute che avvolgono d’inverno.

   

Ho visto le stagioni offrire la pietà ai rami in decadenza

e il grigio delle nubi cadere sopra i palmi dei bambini

come una preghiera

e ho visto facce scansare la ragione

attese fermate nella gola come spine

e il fango della lingua coprire anche le idee.

   

Potessi appartenerti

come la polvere che vigila le strade

riposerei in disparte – ai margini del vento –

sicura d’invecchiare.

   

Tu sei la terra che aspetta le radici.

La gola che divora l’agonia

e il volto dei calanchi icarna ogni perdono

quando le nostre labbra si schiudono nel Sinni

disteso

come il seno di una vecchia.

* * *

Vicoli

In questi vicoli

si aggirano le rughe della gente

come non le avevo mai vedute

ostili

naturali

come il gelo che s’innesta sulla terra.

   

In questi vicoli sfuggenti ad ogni sguardo

si aggira anche il perdono

e la preghiera si spezza in mezzo ai denti

sfinita

fra un grano di rosario

e una bestemmia.

   

In questi vicoli insabbiati

come umide trincee

chiudo a chiave le porte

diffidando del tempo

che abbandona

le grondaie

al loro pianto.

   

Da dietro le finestre

osservandoli riflessa

li sento miei un istante

– talvolta

se il sole si ricorda

che anche loro si cibano di luce

al suono del tuo passo che ritorna.

* * *

Guardando l’orizzonte

Io non so com’eri ieri

terra che fai male, come un lutto.

Se uguale ad ora ti specchiavi nelle pozze

scavando le voci delle vecchie

per renderle infantili come un tempo

quando al buio anche i santi pregavano a rovescio

e i piedi sulla strada sfidavano le scarpe.

   

Terra d’avara confusione, chi pregherà con te

vuotando i battisteri fino al grembo

non c’è nessuno a ungere le falci tra i covoni

per frammentare il grano a spigoli di sogni

il tanto di invecchiare la gioia e le stagioni.

   

Maria che è nata qui

ti serve di nascosto ogni mattina

temendo la salita con il gelo

e chiede due monete per le uova e i soliti boccacci

voltandomi le spalle un po’ dubbiosa

per non mostrare il volto

di chi non ha più attese.

   

Egidio pensa a ciò che non sa dire

e che lo porta via – come la pioggia

poi sorride senza fiato dopo l’orto

ferendomi al ricordo di mio padre

mentre i suoi calli si spaccano stagnanti

piantandomi nel cuore un osso nuovo.

Terra che fai bene, come l’amore.

Io non so cos’è questo formicolio diverso

che mi trapassa lento – succhiandomi la pelle come un

figlio

questo adorare invano che adesso mi appartiene

   

guardando l’orizzonte così vicino agli occhi.

* * *

La poesia di Marina Minet, tratta dalla sua raccolta Scritti d’inverno (PrinMe Editore, 2017), è vigorosamente narrativa: attraverso il suo susseguirsi dei versi prende con decisione la parola un io intento nel suo dialogo con il mondo e le sue cose nel tentativo di tracciarne una descrizione che, grazie al canto, ridoni senso ai suoi occhi. In tal modo, mediante strofe corpose eppure fluide nei loro versi liberi – talvolta quasi sgretolati nei loro confini visivi sulla pagina – si delinea nei componimenti un modulato gioco a incastro delle immagini: immagini significative e dipinte verbalmente attraverso un non meno pesato uso delle singole parole, giocando infatti con capace manualità nell’accostare termini semplici, schietti, per creare urti e corrispondenze di significati ulteriori.

Così, è questo un racconto poetico denso che trova un sua musica sciolta nelle assonanze e sempre nella scelta attenta delle parole: c’è l’io che guarda la sua terra, il suo mondo, modulando coi versi un suo desiderio d’appartenenza ad esso, un volersi riconoscere nelle stesse immagini da lui cantate. La parola è dunque comprensione e ritrovo, attraverso la quale sentirsi a casa.

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