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Tre poesie di Valentina Cottini

Disaccolgo

io non sono resistente non sono un corso d’acqua non corro lo stesso oltre l’ostacolo ricavandomi un nuovo sentiero io sono

la diga

sono la diga e talvolta l’acqua ferma

e sono così stanca della narrazione

reticente

della retorica delle donne

resilienti

io sbaglio taglio mi pento mi dolgo dei miei peccati

perché peccando ho meritato i tuoi castighi

e mi dolgo dei miei castighi perché li ho meritati perché io sono non sono affatto mai divenuta una donna forte

io poltrisco dentro alle federe usurate dei cuscini da notte

mi fingo ribelle esule persino mi fingo eretica e invece pratico

l’ortodossia ogni mese

quattro giorni al mese ventotto anni dovrei avere già un figlio secondo alcuni

(mio padre lo vedo che freme vorrebbe

sapermi meno sola)

ma il mio corpo non è adatto

ad accogliere

il mio corpo è negligente e si nega

alla gente

si nega

a me stessa si nega

e prega

* * *

Stratega

quand’è che arrivi? mi hai detto che vieni

e da allora

aspetto ogni ora che tu

mi dica: non vengo più

   

(sarebbe perfettamente normale:

amare è un fatto del costruire;

la strategia si pone come obiettivo la compensazione della reciproca malattia;

come faremmo mai io e te

con tutta questa

malinconia?)

* * *

Prosaica

tutta questa bellezza e io sempre

così distante immacolata

volgare vergine di provincia

ai santi le cose dei santi

* * *

Nelle poesie di Valentina Cottini spicca con forza l’assenza completa di punteggiatura a favorire un ritmo della narrazione poetica, verso dopo verso, quasi straripante tra ripetizioni scandite e puntuali delle parole e quasi ossessiva nell’impastare un flow – per utilizzare un termine che sembra adatto ai testi in questione – che riporta a volte al più genuino esempio di poetry slam. In questo fluire narrativo, tra impennate e salti metrici, si scorge il forte uso del proprio corpo come luogo esposto alle sofferenze e agli urti che l’io racconta e rivolge su di sé, una mappa attraverso la quale cantare la propria indisposizione verso categorie sentite non proprie e asfissianti, il rifiuto di far colare il proprio essere in forme predefinite alle quali non ci si può più permettere di adattarsi.

Attraverso questo spazio aperto grazie alla parola poetica, ai suoi ritmi a velocità e direzioni alternative da seguire, sembra aprirsi a sua volta la possibilità per l’io di ridefinirsi come donna, come corpo a sé stante, di abitare i luoghi vincendo il sentimento di una lontananza dalla bellezza delle cose che circonda: trovare così, nonostante la malinconia del mondo, una forza d’amore che sia, appunto, tra le varie forme attraversate, un costruire e trovare, un trovarsi insieme e un luogo dove stare.

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