Disaccolgo
io non sono resistente non sono un corso d’acqua non corro lo stesso oltre l’ostacolo ricavandomi un nuovo sentiero io sono
la diga
sono la diga e talvolta l’acqua ferma
e sono così stanca della narrazione
reticente
della retorica delle donne
resilienti
io sbaglio taglio mi pento mi dolgo dei miei peccati
perché peccando ho meritato i tuoi castighi
e mi dolgo dei miei castighi perché li ho meritati perché io sono non sono affatto mai divenuta una donna forte
io poltrisco dentro alle federe usurate dei cuscini da notte
mi fingo ribelle esule persino mi fingo eretica e invece pratico
l’ortodossia ogni mese
quattro giorni al mese ventotto anni dovrei avere già un figlio secondo alcuni
(mio padre lo vedo che freme vorrebbe
sapermi meno sola)
ma il mio corpo non è adatto
ad accogliere
il mio corpo è negligente e si nega
alla gente
si nega
a me stessa si nega
e prega
* * *
Stratega
quand’è che arrivi? mi hai detto che vieni
e da allora
aspetto ogni ora che tu
mi dica: non vengo più
(sarebbe perfettamente normale:
amare è un fatto del costruire;
la strategia si pone come obiettivo la compensazione della reciproca malattia;
come faremmo mai io e te
con tutta questa
malinconia?)
* * *
Prosaica
tutta questa bellezza e io sempre
così distante immacolata
volgare vergine di provincia
ai santi le cose dei santi
* * *
Nelle poesie di Valentina Cottini spicca con forza l’assenza completa di punteggiatura a favorire un ritmo della narrazione poetica, verso dopo verso, quasi straripante tra ripetizioni scandite e puntuali delle parole e quasi ossessiva nell’impastare un flow – per utilizzare un termine che sembra adatto ai testi in questione – che riporta a volte al più genuino esempio di poetry slam. In questo fluire narrativo, tra impennate e salti metrici, si scorge il forte uso del proprio corpo come luogo esposto alle sofferenze e agli urti che l’io racconta e rivolge su di sé, una mappa attraverso la quale cantare la propria indisposizione verso categorie sentite non proprie e asfissianti, il rifiuto di far colare il proprio essere in forme predefinite alle quali non ci si può più permettere di adattarsi.
Attraverso questo spazio aperto grazie alla parola poetica, ai suoi ritmi a velocità e direzioni alternative da seguire, sembra aprirsi a sua volta la possibilità per l’io di ridefinirsi come donna, come corpo a sé stante, di abitare i luoghi vincendo il sentimento di una lontananza dalla bellezza delle cose che circonda: trovare così, nonostante la malinconia del mondo, una forza d’amore che sia, appunto, tra le varie forme attraversate, un costruire e trovare, un trovarsi insieme e un luogo dove stare.
- Paolo Andrea Pasquetti, 13 Settembre 2022