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Tre poesie da Feriti dall’acqua di Pietro Romano

XVIII.

Come tradurre l’azzurro arreso del cielo,

quando, con l’odore di terra riarsa, le parole

separano le nubi dalle nubi, gli uccelli

dagli uccelli, le foglie dalle foglie?

* * *

IX.

L’istante in cui pronuncio parola

appassisco e mi do alla luce,

alla voce che infiora.

* * *

XX.

Quest’ombra si interra

per dissetare l’impronta a un passo

dalla pietra a cui dicevi viva

la parola. Era forse il seme raggelato

sotto il sole di dicembre, la voce

che si stemperava dentro il dolore

dirsi soli e incompiuti

tra le braccia del padre.

* * *

Nei suoi versi, tratti dalla raccolta Feriti dall’acqua (peQuod, 2022), Pietro Romano mostra un rapporto profondo e maturato dall’esperienza con la parola poetica, seguendone quasi le correnti sorgive che attraversano i terreni sotterranei fino al loro riemergere sulla carta in componimenti dal corpo breve e tuttavia denso, a incidere il loro significato sullo spazio bianco in cui si pongono. C’è una musicalità estesa che accompagna il racconto di ogni componimento nel suo divenire, dove la poesia si innesta su un’assenza sentita nell’ombra, in un cammino rivolto a sanare un’arsura, un’aridità della propria terra attraverso una parola che tuttavia disperde piuttosto che riunire, separa le cose che nomina facendo così risuonare nel buio della chiamata il silenzio di una solitudine quasi abbracciata, alla fine, con affetto.

Tra un’assonanza e l’altra, tra la ripresa di termini specifici per dare peso e valore alle parole – collocarle (cosa rara) sull’impronta tracciata per loro sul terreno – sembra comunque emergere un calore vitale ancora intatto all’interno dell’io che racconta e si racconta. Lì, sotto lo strato ghiacciato dell’assenza, ci sono ancora istanti in cui fiorire e dissetarsi davvero, forse tramite quella parola che indica un cammino da seguire di fronte ai propri occhi.

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