L’abaco irriducibile del sacerdote
Grammi di luce – ridesta
veglia grama
nell’abituro che sussurra – sepoltura
Cotonato in quel
tessuto grembo
innesti di viscera
clone di filogenia magra
neve che sisma
la carne di invertebre
ed il tronco che muffa
Con tarso
vestire l’innervato obbrobrio
irrobustendo la cornea
non la chiude più
a quei grammi rauchi
a reggere
a reggere
a remigante suono di nutazione
del truciolo corrotto
foraggia la radica
Questo inciso deformato dal buio
è corpo
Viene forgiato dal voltaico tocco
al tatto graminacee
che cuciono l’impronta
come luce nel passato
si fa limpida torba.
* * *
Sacchi di salme gettate dalla prua di un veliero che circumnaviga la galassia.
Un tenue buio viene
sulla gaia guglia
quando
i nembi asciutti sono
riparo di fumiganti lembi
Prima di essere
ratifica della vita
oltre il respiro
E l’esodo del polline
patogeno calco di un passaggio segreto
Stagione
nei borghi
seppellita
Cadaveri eterei – in mani di uno straniero
i palmi dischiusi
ilari ai sospiri del borgo –
Nel vento, nido dell’uria
nell’aria sono fecondi agrumi
Mortifere ifantrie
nell’aria posate
come coperta dell’aviaria pelle
bramano le onde
sul Filo di sale
una cabrata per lasciarsi
alzano e si abbassano –
l’addormentata superfice
trapassano.
Questi abissi rischiarano
un aborto che respira
che ha smesso di trattenerlo
in questi abissi
nuotano.
* * *
L’ermetico comprendere
A volte capita
di sentirmi un Diavolo
diverso; assieme alle parole
Siamo;
Se alcune non le capiamo
anche fino il pozzo di esse
noi le lasciamo inosservate
davanti ad uno specchio, appannato
dal freddo distacco
della comprensione
Ma il peggio arriva quando
le parole sapute, cadute vanno
nel lugubre pozzo del dimenticatoio
nell’isolamento insulare
spettante a ognuno di noi
Siete responsabili di quelle morti
allora
di quei mari tumidi di sporco
Lì si!
che nell’ebbro scompenso, in voi
ribolle ogni frugale delirio
che già da tempo frugava in voi
dal penetrale occhio acritico
che ciba la vostra sommossa all’analisi,
per non ricorrere più all’oblio,
a quell’albero della radice, cui
asportate la corteccia
Una parata di diavoletti che
la lingua si masticano, le altrui anche
masticano, nella speranza che
sia ancora vivo il sapido
del termine setacciato.
Esercito di arcangeli sospesi dalle
fila adamantine
di un glossario logorato
in desuete demorfologizzazioni,
l’eco di una prosa
in una lingua aliena
l’urto di un sarcofago profanato.
Siete antifrasi
per debellare – o
debellarvi – il vostro credere
Una nuvolaglia di fitte nubi
sguarnite di ogni massa
Come un novilunio acceso
non si conta il novero degli astri
delle acmi inesplose
dagli anni privato – il cielo
è pregno d’invisibilità
Insorge un’iride vitrea
che osserva epitaffi
È un ricatto d’orgoglio,
giace sudicio terriccio
in quella calotta mefistofelica
una rovina splendente
ma diroccata già
al culmine dei suoi drammi
Si nasconde in quell’anfratto deontologico
l’epigono grigio
che riprende
[a camminare
[a sgranchire
il disco del collo
[a tirar su
la crapa
ed assorbito
da ogni indecifrazione
Rimesta fra ciotole di scarabei
e deficiazioni
Come fosse cottimo – registro numismatico
erario che
non ha scrivania – col solo
Latrato
pronunzia le libbre
di inabitati sistemi monetari.
Dal promontorio, Empi
gli scettici sguardi
se per un attimo si strizzano,
quel tipo laggiù – gli pare essere
quel Diavolo della novena – più volte
sillabata
sgomberando il verbo*
*dì·h·o
* * *
Nella poesia di Dario Grillo si nota sin da subito un’immersione volontaria all’interno di una sorta di crisi sistemica del linguaggio avvertita dall’io con profondità, tra punte di netto ermetismo e giochi linguistici variegati: dall’assenza prolungata fino all’estremo della punteggiatura all’accostamento quasi compulsivo di termini semplici accanto a quelli aulici e/o maggiormente ricercati, creando una polifonia linguistica avvolgente. Da questa tensione si origina quindi un ritmo ruvido, spesso incostante a cui fa eco a volte una forma dei versi quasi esplosa e frammentata sullo spazio bianco e indefinito del racconto: entrambe le cose sono espressione di quella stessa destabilizzazione della parola che guida la narrazione poetica dell’io man mano strofa dopo strofa.
Eppure, tra un’assonanza e l’altra, si riesce a cogliere una melodia cha sembra far da guida a un viaggio alla ricerca della parola stessa ora apparentemente perduta, seguendone l’eco tra immagini allucinate, metafore pungenti e cadaveri di parole cadute negli abissi dell’oblio e del disuso. Tuttavia, anche gli abissi forse rischiarano ciò che di dimenticato può essere recuperato e richiamato a sé.
- Paolo Andrea Pasquetti, 13 Luglio 2022