Tre poesie di Dario Grillo

L’abaco irriducibile del sacerdote

Grammi di luce – ridesta

veglia grama

nell’abituro che sussurra – sepoltura

   

Cotonato in quel

tessuto grembo

   

innesti di viscera

clone di filogenia magra

neve che sisma

la carne di invertebre

ed il tronco che muffa

   

Con tarso

vestire l’innervato obbrobrio

irrobustendo la cornea

non la chiude più

a quei grammi rauchi

a reggere

a reggere

a remigante suono di nutazione

del truciolo corrotto

foraggia la radica

   

Questo inciso deformato dal buio

è corpo

Viene forgiato dal voltaico tocco

al tatto graminacee

che cuciono l’impronta

   

come luce nel passato

si fa limpida torba.

* * *

Sacchi di salme gettate dalla prua di un veliero che circumnaviga la galassia.

Un tenue buio viene

sulla gaia guglia

quando

i nembi asciutti sono

riparo di fumiganti lembi

Prima di essere

ratifica della vita

oltre il respiro

   

E l’esodo del polline

patogeno calco di un passaggio segreto

Stagione

nei borghi

seppellita

   

Cadaveri eterei – in mani di uno straniero

i palmi dischiusi

ilari ai sospiri del borgo –

Nel vento, nido dell’uria

nell’aria sono fecondi agrumi

Mortifere ifantrie

nell’aria posate

come coperta dell’aviaria pelle

   

bramano le onde

sul Filo di sale

una cabrata per lasciarsi

   

alzano e si abbassano –

l’addormentata superfice

trapassano.

   

Questi abissi rischiarano

   

un aborto che respira

che ha smesso di trattenerlo

   

in questi abissi

nuotano.

* * *

L’ermetico comprendere

A volte capita

di sentirmi un Diavolo

diverso; assieme alle parole

Siamo;

Se alcune non le capiamo

anche fino il pozzo di esse

noi le lasciamo inosservate

davanti ad uno specchio, appannato

dal freddo distacco

della comprensione

   

Ma il peggio arriva quando

le parole sapute, cadute vanno

nel lugubre pozzo del dimenticatoio

nell’isolamento insulare

spettante a ognuno di noi

Siete responsabili di quelle morti

allora

di quei mari tumidi di sporco

   

Lì si!

che nell’ebbro scompenso, in voi

ribolle ogni frugale delirio

che già da tempo frugava in voi

dal penetrale occhio acritico

che ciba la vostra sommossa all’analisi,

per non ricorrere più all’oblio,

a quell’albero della radice, cui

asportate la corteccia

   

Una parata di diavoletti che

la lingua si masticano, le altrui anche

masticano, nella speranza che

sia ancora vivo il sapido

del termine setacciato.

   

Esercito di arcangeli sospesi dalle

fila adamantine

di un glossario logorato

in desuete demorfologizzazioni,

l’eco di una prosa

in una lingua aliena

l’urto di un sarcofago profanato.

   

Siete antifrasi

per debellare – o

debellarvi – il vostro credere

Una nuvolaglia di fitte nubi

sguarnite di ogni massa

Come un novilunio acceso

non si conta il novero degli astri

delle acmi inesplose

dagli anni privato – il cielo

è pregno d’invisibilità

   

Insorge un’iride vitrea

che osserva epitaffi

È un ricatto d’orgoglio,

   

giace sudicio terriccio

in quella calotta mefistofelica

   

una rovina splendente

ma diroccata già

al culmine dei suoi drammi

Si nasconde in quell’anfratto deontologico

l’epigono grigio

che riprende

                      [a camminare

                      [a sgranchire

il disco del collo

                      [a tirar su

la crapa

   

ed assorbito

da ogni indecifrazione

Rimesta fra ciotole di scarabei

e deficiazioni

Come fosse cottimo – registro numismatico

erario che

non ha scrivania – col solo

Latrato

pronunzia le libbre

di inabitati sistemi monetari.

   

Dal promontorio, Empi

gli scettici sguardi

se per un attimo si strizzano,

quel tipo laggiù – gli pare essere

quel Diavolo della novena – più volte

sillabata

sgomberando il verbo*

*dì·h·o

* * *

Nella poesia di Dario Grillo si nota sin da subito un’immersione volontaria all’interno di una sorta di crisi sistemica del linguaggio avvertita dall’io con profondità, tra punte di netto ermetismo e giochi linguistici variegati: dall’assenza prolungata fino all’estremo della punteggiatura all’accostamento quasi compulsivo di termini semplici accanto a quelli aulici e/o maggiormente ricercati, creando una polifonia linguistica avvolgente.  Da questa tensione si origina quindi un ritmo ruvido, spesso incostante a cui fa eco a volte una forma dei versi quasi esplosa e frammentata sullo spazio bianco e indefinito del racconto: entrambe le cose sono espressione di quella stessa destabilizzazione della parola che guida la narrazione poetica dell’io man mano strofa dopo strofa.

Eppure, tra un’assonanza e l’altra, si riesce a cogliere una melodia cha sembra far da guida a un viaggio alla ricerca della parola stessa ora apparentemente perduta, seguendone l’eco tra immagini allucinate, metafore pungenti e cadaveri di parole cadute negli abissi dell’oblio e del disuso. Tuttavia, anche gli abissi forse rischiarano ciò che di dimenticato può essere recuperato e richiamato a sé.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 13 Luglio 2022

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