Tre poesie di Marco Levi

La ragazza trovata all’alba

le sneakers quasi sfiorano

la terra, la testa

non si vede

occlusa da foglie.

* * *

Il Bosco verticale mi fa piangere

non è un bosco normale

è un bosco fantasma.

Il Bosco della droga non respira

discende

fra rami di suini.

Rogoredo è più bromuro.

   

Boschi che si osano su Marte

boschi abbandonàti ai suicidi;

sradicato per le rètine l’Adàm

senza limite l’andare.

   

Oh, profumasse ancora il bosco

la corteccia la rugiada

l’elettrone nello stagno

il ragazzo

e la fanciulla fra le foglie

cellule vicine

a dove si è sbocciati.

* * *

Satana brucia gli alberi di notte

perché gli alberi respirano padre

madre degli umani tutti separa

seziona svergina riserve liguri

che poche ci canteranno cicale.

   

Estirpa l’ossigeno come erbaccia

totem pianta nella terra il suo big bang

fosforescente forte soffocare.

   

Lascia sui sentieri i suoi escrementi

fazzoletti per il bosco di San Rocco.

* * *

Nelle poesie di Marco Levi emerge sin da subito una certa predisposizione a giocare con la costruzione dei versi, andando a creare un percorso particolare. Da qui, ad esempio, l’assenza prolungata della punteggiatura che va a legarsi ad una scansione di ogni singolo verso quasi a scatti, ritagliando ogni volta dei brevi momenti di lirismo ognuno dei quali perfettamente a sé stante: come se, all’interno dei vari componimenti, si inanellassero uno dopo l’altro degli haiku non ordinari. A volte la tensione dell’autore a forzare il ritmo e la sintassi poetica lo spinge ad arrivare, in particolare al giro finale delle strofe, a momenti di ermetismo nel frenetico accostamento ritmico di nomi, avverbi, verbi etc. gettati sulla pagina bianca in sequenza ininterrotta.

D’altra parte, nel racconto poetico vero e proprio spicca l’elemento naturale e, in particolare, quello del bosco utilizzato come luogo e metafora di storie dure e sofferenti, i cui elementi vegetali ora celano con dolcezza ora invece svelano in maniera cruda. È questo bosco a cui l’io però guarda con nostalgia come immagine di una purezza incontaminata e lontana nel tempo e ora, forse, irrimediabilmente corrotta dagli eventi che vi si svolgono all’interno e dei quali l’io stesso decide di farsi sofferente cantore: attraverso il canto il bosco comunque rimane, tra ricordo e sofferenza.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 30 Giugno 2022

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