3. Rimanere nel luogo

Il mare fischiava dolce, mentre il vento giocava sulla schiuma delle onde. La ragazza era ancora poggiata sul parapetto alla prua della nave a godersi il sole sul viso, in attesa dello sbarco: la spiaggia era ormai a poche decine di metri e le mancava, dopo settimane sull’acqua, il contatto con il calore accogliente del suolo. Un piccolo gabbiano grigiastro rimase a dondolarsi al vento alla sua destra, garrendo di tanto in tanto: sorrise per poi legarsi rapidamente i capelli bruni in una treccia semplice. Era il suo primo viaggio così lungo e lontano da casa, a leghe e leghe di distanza oltre il Mare del vento: in quel momento una folata più forte del solito quasi le colpì con forza il viso sottile e lentigginoso, costringendola a chiudere gli occhi e ripararsi con le mani. Il gabbiano sembrò guardarla incuriosito con i suoi occhi giallastri e oziosi mentre, con difficoltà, si rimetteva in sesto di fronte al volatile perfettamente a suo agio tra le correnti d’aria. «Un nome decisamente azzeccato per questo mare…» pensò tra sé e sé mentre scendeva dalla prua, accompagnata dal rumore delle spesse assi di legno sotto i suoi piedi e dall’onnipresente vento che avvolgeva l’imbarcazione e l’acqua circostante. Il piccolo gabbiano garrì di nuovo alle sue spalle facendo voltare la ragazza di sbieco, incuriosita: con un agile movimento il pennuto virò di lato allontanandosi dall’imbarcazione, verso sud ovest. La giovane sospirò malinconicamente mentre stringeva le palpebre per proteggersi dai raggi del sole, giocherellando con la treccia dei capelli tra le dita sottili. «Pochi minuti e si sbarca… si prepari se non vuole fare tutto di corsa!» tossicchiò la voce roca e profonda di un marinaio appena sbucato dalla cambusa sbuffando e ansimando. La ragazza si limitò ad annuire sotto un sorriso sottile appena accennato e andò a recuperare i suoi pochi bagagli in cabina, lasciandosi alle spalle il vento che continuava a stridere attorno ad ogni cosa.

Lo sbarco fu in effetti piuttosto sbrigativo. Mentre riponeva nello zaino un libro dalla copertina nerastra e consumata iniziò a sentire in maniera sempre più chiara il crescendo di un’orchestra di rumori portuali: dalle campane sulle banchine alle voci concitate dei marinai intenti alle operazioni di attracco; il tutto avvolto da un ronzio di fondo che si intrufolava tra ogni suono più o meno distinto. Era il motivo della città portuale, della sua vita sempre attiva e intricata tra i vicoli umidi che odoravano di pece e salmastro giorno e notte. L’aumentare di volume delle voci dei marinai le fece capire che fosse ormai ora di sbarcare e, senza trattenersi oltre dalla piccola cabina che l’aveva ospitata in quelle settimane, uscì dalla stanza in fretta. Sulla soglia lanciò un ultimo sguardo alla cuccetta legnosa posta dall’altra parte della cabina, di fronte alla finestrella tonda che ne illuminava il materasso ruvido la cui sola vista le rievocava nottate non particolarmente confortevoli: in qualche modo le sarebbe mancato quello spazio angusto dove, cullata dal movimento dei flutti del mare, aveva passato intere giornate a leggere e prendere appunti, a fissare le assi del soffitto scricchiolare ed oscillare di tanto in tanto in attesa di quel momento ormai arrivato. Mentre pensava a queste cose, senza rendersene neanche troppo conto, si ritrovò di nuovo con il sole in faccia ad attendere il suo turno per attraversare la passerella per lo sbarco. Il sottofondo caotico della città da ovattato e distante ora, lì all’aperto, sembrava colpirle i timpani da ogni angolazione sonora. Si guardò attorno: la città sorgeva in un golfo non troppo grande e sembrava seguirne la fisionomia naturale adattando le sue costruzioni, le sue strade e i suoi tetti al semicerchio che caratterizzava quel punto della costa. Il porto era particolarmente affollato quel giorno e il suo campo visivo era interamente occupato dal traffico di abiti multicolore accalcati sulle grosse banchine in pietra e dalle tegole rossastre sopra di lei, sfocate dal fumo dei numerosi comignoli delle botteghe in piena e frenetica attività. La ragazza rimase un attimo titubante mentre i due passeggeri davanti a lei iniziavano pigramente a scendere attraverso la spessa passerella di legno a sostenerli. «Insomma… non vorrà rimanere su questa zattera!» tossicchiò alle sue spalle la voce del marinaio di prima nella maniera più cordiale che potesse mettere in campo, risultando solo un po’ goffo. La giovane si riscosse come da un sonno leggero e, ringraziando sottovoce l’uomo, scese la passerella in direzione della città. Non appena la suola del suo stivaletto destro venne a contatto con la pietra ruvida e ingiallita della banchina non poté non percepire il calore che la terraferma sembrava emanare ininterrottamente e che ora si faceva strada in lei. Fu come sentirsi di nuovo collegati a un flusso perpetuo dal quale era rimasta separata per settimane dal freddo dell’acqua e del vento: si era sempre sentita connessa al mondo e a ogni sua cosa che percorreva e ora, finalmente, tornava a sentirsi parte di un’unità che un elemento estraneo per lei come il mare le aveva sottratto per troppo tempo. Rimase un attimo salda su entrambi i piedi a godersi quella sensazione di ritrovata unità con le cose e sorrise lievemente: il vento sferzante dei giorni scorsi ora, nella città protetta dal golfo, sembrava svanito o ridotto di tanto in tanto a una lieve brezza tiepida e piacevole. Senza perdere tempo si fece strada con passo allegro davanti a lei e si ritrovò già immersa nella folla accalcata tra le bancarelle e le botteghe portuali. Mentre avanzava a stento tra i gruppi di persone, passando al lato di un ampio portico che faceva da entrata a una bottega non meno ampia, sentì le sue narici invase dall’odore pungente di spezie di ogni tipo: ne riconosceva alcune, molte altre tuttavia non le aveva mai viste o sentite. Dai grossi sacchi che le contenevano, le polveri multicolori delle spezie facevano quasi a gara con i ricchi abiti sgargianti di molti borghesi affaccendati scupolosamente a osservare la merce e a contrattarne con i mercanti il prezzo tra grida, risate e un vociare interminabile che accompagnava ogni loro gesto o movimento. L’odore di alcune spezie era così forte che gli occhi della ragazza iniziarono a lacrimare mentre con fatica sgusciò tra due gruppi affollati di persone che non si accorsero neanche della sua presenza, quasi schiacciandola tra stoffe, spezie e le impalcature delle bancarelle. Ansimando e cercando di asciugarsi le lacrime dagli occhi la giovane iniziò a percepire un senso di oppressione crescente dentro di sé: quella vita così strabordante e rumorosa non era il suo luogo; la terra che amava percorrere era fatta di suoni gentili e odori quieti ad accompagnare un passo lento per fermarsi con calma a sentire le cose, non a stordirsi nella loro confusione. Con non poca fatica e le guance rosse per il fiato corto sbucò in uno slargo dove una folla non meno nutrita delle altre si aggirava attorno a un gruppo di bancarelle poggiate al muro di un grosso edificio biancastro. La costruzione faceva angolo con quella che sembrava la via principale che man mano saliva e si addentrava verso il centro della città. Lì fu attirata dai versi di numerosi animali provenienti dalle gabbie di ferro che un mercante dalla voce stridula e avvolto in delle pesanti vesti giallognole passava in rassegna, gridando e sbracciandosi verso gli acquirenti interessati, rilanciando prezzi e offerte picchiettando con una bacchetta in legno sulla gabbia oggetto della vendita. All’interno delle sbarre si potevano scorgere ora piccole scimmie, cani o volatili che passavano da pose sonnolente e smorte a un contorcersi spaventati dal chiasso della folla circostante. La ragazza non poté non provare una fitta fin dentro il petto nel vedere quelle che per lei erano vite ingabbiate all’interno di un chiasso incurante di tutto se non del loro prezzo. Aggiustandosi lo zaino dietro la schiena e scrollandosi la polvere dalla veste fece per passare in fretta oltre quella visione non particolarmente allegra quando la sua attenzione fu attirata da un rondone dal piumaggio tra il grigio e il marroncino che svolazzava in preda al panico all’interno della gabbia troppo piccola che lo conteneva, sbattendo confusamente addosso le sbarre e cinguettando in maniera penetrante. Il mercante, col sudore sulla fronte per il caldo che tuttavia non sembrava impedirgli di mantenere le grosse vesti in cui era avvolto, gridò in maniera stridula nella direzione dalla gabbia, battendo con forza su di essa con la propria bacchetta nella speranza di calmare il rondone che, per tutta risposta, andò ancor più nel panico. La ragazza, quasi assorbita dalla sofferenza dell’animale, si avvicinò in maniera più decisa facendosi largo a spintoni tra la folla, trascinata da quella che sentiva essere una rabbia crescente. Il mercante continuava ad urlare tra il sudore e il suono insopportabile e violento della bacchetta sulla gabbia, accompagnato dal cinguettio sofferente del rondone. La giovane arrivò in prima fila proprio davanti alla scena e, in un modo che neanche lei avrebbe saputo spiegarsi, era in procinto di urlare in faccia al mercante o perlomeno di fare qualcosa per impedire il continuo della sofferenza dell’animale quando all’improvviso una scimmia, gridando alle spalle dell’uomo, afferrò le sue lunghe vesti gialle tirandole con forza. Il mercante, tra le sue urla stridule e sgradevoli, incespicò e cadde rovinosamente a terra nella polvere urtando nella caduta la gabbia del rondone che, finita al suolo, si aprì di scatto e permise all’uccello di fuggire rapidamente tra i comignoli dalle case, svanendo alla vista dei presenti sbigottiti tra il loro vociare concitato e le risate dei bambini ripresi dalle madri composte nei loro abiti ben curati. Il mercante si rialzò dolorante imprecando mentre alle sue spalle la piccola scimmia sghignazzava allegra: sembrava non meno divertita dalla scena della ragazza che, sorridendo non troppo velatamente, fece per andarsene soddisfatta. Mentre il mercante malediva la scimmia ma senza la sua bacchetta, spezzata nella caduta, la giovane fece l’occhiolino a un bambino che le sorrise divertito, coprendosi con la manina la bocca sorridente prima di essere coperto dallo sguardo austero e scocciato della madre.

La ragazza pensò di averne avuto abbastanza di quel luogo e di quelle persone e, senza altri indugi, seguendo i cartelli all’angolo della strada si diresse il più in fretta possibile alle porte della città. Affrettò il passo: man mano che si lasciava alle spalle il caos del mercato portuale sentiva il fiato alleggerirsi e la mente iniziare lentamente a svuotarsi, rilassandosi quel tanto che bastava per farla concentrare sulla direzione da seguire. Il centro della città non era meno debordante di vita del porto e, seguendo la strada principale che passava inevitabilmente per la piazza centrale, la giovane incurante del resto cercò di percorrerla il più in fretta possibile destreggiandosi tra i carri dei mercanti e il rumore degli zoccoli dei cavalli accompagnati dal continuo vociare cittadino. Dopo qualche minuto, superò anche l’ampia piazza e si ritrovò in vista delle porte della città. A guardia stavano due soldati bardati in una giubba blu: uno dei due era appoggiato pigramente all’alabarda, incurante del traffico di persone attorno, mentre l’altro sembrava tutto preso a discutere in maniera divertita con alcuni uomini alla sua destra. Nessuno dei due sembrò accorgersi della ragazza che, per tutta risposta, uscì dalla città senza farsi pregare ulteriormente. Nel momento in cui superò lo spesso portone di legno e il perimetro delle solide mura in pietra della città fu come se tutto il rumore del mondo circostante si fosse incurvato al massimo del suo apice, per poi piombare improvvisamente in un nuovo silenzio che si apriva, ora, sul paesaggio campestre di fronte agli occhi della ragazza. Quasi intontita da quello stacco sonoro incespicò un attimo su se stessa prima di riprendere il cammino, col rumore di fondo della città alle sue spalle che, sebbene ovattato e sempre più lontano e flebile, voleva dimenticare al più presto. Davanti a lei le fronde degli alberi ai lati della strada si piegavano dolcemente alla tenue brezza marina, cullando i campi tutto intorno in una danza estiva silenziosa e pacifica. Mentre proseguiva notò una stretta svolta sul terreno che, tra ghiaia e terra, saliva su una piccola collina alla sua sinistra. Senza fermarsi a pensare iniziò ad arrampicarsi sul sentiero in salita e, dopo pochi minuti e con ancora un po’ di fiato corto, giunse sulla cima erbosa del rilievo. Si trovò a vagare ora con passo lento, ora fermandosi di tanto in tanto a guardarsi attorno, in un boschetto di betulle che faceva da corona alla sommità della collina: sotto i suoi piedi, un soffice e folto manto erboso di un verde tenue ma florido si gonfiava al ritmo del vento, che lì sopra fischiava con poca più forza tra le fronde degli alberi richiamando alla mente della giovane un’orchestra di viole e violini pigramente intenti a suonare una musica lenta e sempre costante. Si fermò di nuovo, appoggiando la mano sul legno rugoso e biancastro di una betulla, per poi guardare in alto. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, sorridendo: quel luogo ora era pace, lontano dal caos della città indaffarata nella sua vita dissipata sulle cose. Senza aprire gli occhi e continuando a sorridere si lasciò scivolare lentamente con la schiena premuta sul tronco verso giù, fino a sedersi a terra, lasciando vagare le dita tra i ciuffi d’erba sottili che ora accoglievano il suo corpo lì disteso a risposare.

Mentre il rumore del vento tra gli alberi accompagnava la sua sosta, si tolse dalle spalle lo zaino e sistemò la sua veste verde-foglia che, a contatto ora col manto erboso, sembrava fonderla perfettamente con quel piccolo pezzo di mondo che era riuscita a trovare dopo tanto vagare. Si godeva quietamente il sole sul volto e le braccia, mostrando la pelle abbronzata dai giorni in mare, lei che era sempre stata una ragazza pallida fin quasi a scolorire sotto i vestiti che indossava nella sua casa ora lontana: forse quel viaggio già le aveva portato qualcosa di inaspettato, come adesso la sua pelle dolcemente sfumata e imbrunita dalle frequenti visite del sole che le infondeva un nuovo calore dentro, una spinta leggera e desiderosa di proseguire il suo cammino anche se incerto e, forse, molto lungo. Sentiva che non importava la difficoltà che avrebbe intralciato i suoi passi tra un sasso e l’altro. Valeva la pena andare, trovare la vita che aveva fino a quel momento dipinto a parole o che quelle d’altri le avevano dipinto di fronte agli occhi. Forse adesso la parola non avrebbe più solo accennato alle cose ma gliele avrebbe indicate davanti, mostrandogliele una volta scoperte e prese con delicatezza tra le mani per farle durare insieme a lei. Aprì gli occhi e senza smettere di sorridere si strinse in un abbraccio verso se stessa, passandosi lentamente le mani sulle spalle scaldate dal sole. Mentre le dita scendevano sul braccio sinistro lasciarono colpire dai raggi di luce un piccolo tatuaggio che raffigurava una foglia stilizzata, all’altezza della spalla scoperta. Erano passati già alcuni anni da quando era stato disegnato e l’inchiostro, visibilmente sbiadito in più punti, seguiva la superfice del braccio della ragazza. Ricordava bene il significato che si nascondeva dietro quella figura incisa sulla sua pelle ma negli anni aveva sentito come un distacco apatico crescere tra di lei e quell’idea, quel sogno, e ora sbiadiva lentamente di fronte ai suoi occhi. Fu in quel momento che, dall’alto dei rami sopra di lei, una foglia verdognola si staccò e spinta dal vento andò ad appoggiarsi proprio sul tatuaggio che ne rappresentava la forma, rimanendo lì premuta dalla forza delicata dell’aria per qualche attimo prima di volare un poco più lontano. Il contatto ruvido e fibroso della foglia la bloccò quasi di colpo, mentre fissava interdetta la piccola sagoma che frusciava via da lei verso gli alberi. Sentì come se quel piccolo pezzo di mondo si fosse appoggiato con dolcezza su di lei, proprio come lei aveva fatto istintivamente poco prima sul tronco dell’albero che ora aveva alle spalle. Dal tatuaggio adesso percepiva un forte formicolio, una sorta di invito a riacuirsi nella sua forma e riconsiderarsi e, stordita dalla cosa, rimase con lo sguardo fisso in un punto a caso mentre poteva ora distinguere quasi con certezza il suono di archi provenire dai rami sopra la sua testa. Poi un cinguettio penetrante risuonò dietro di lei. Si voltò di scatto prima di sentirlo di nuovo alla sua destra: accompagnato da un leggero fruscio d’ali, il rondone fuggitivo del mercato le planò accanto a pochi metri di distanza sul prato, zampettando allegro. La ragazza sorrise di nuovo, stavolta aprendo la bocca incredula, e tese leggermente la mano verso il piccolo animale. «Hey tu… ciao» disse a bassa voce, mentre davanti a lei l’uccello la squadrava incerto dalle sue pupille scure. «Hai fame per caso?» continuò la giovane voltandosi in fretta verso lo zaino e, dopo aver rovistato un attimo al suo interno, spezzettò da una stozza di pane avvolta da un panno alcune briciole lanciandole con delicatezza verso l’animale che, per tutta riposta, dopo un breve sguardo dubbioso si avvicinò iniziando a beccare qui e lì. La ragazza sorrise e di colpo il rondone, una briciola di pane nel becco, spiccò il volo andandosi a posare sulla sua spalla, lasciandola gridare sottovoce per lo stupore. Il volatile, appoggiato saldamente sulle piccole zampe, terminò di mangiare e cinguettò allegro all’orecchio della giovane che, prima ancora potesse dire qualcosa, guardò l’animale volare velocemente su un ramo poco sopra la sua testa e rimanere lì pacioso, squadrandola di tanto in tanto dalla sua posizione sopraelevata. «Sono felice della tua compagnia, piccolo amico» sorrise ancora la ragazza guardando in alto. «Finché vuoi potrai seguirmi e sentirti al sicuro fuori da quella città». Il cinguettio allegro del rondone le sembrò una risposta abbastanza chiara e, spostando il peso del corpo sulle braccia tese ai suoi fianchi, si lasciò andare supina sul prato.

Il fruscio dell’erba ora le sfiorava i capelli distesi a terra, punzecchiandole di tanto in tanto le orecchie come a sussurrare al loro interno qualche nenia instancabilmente antica e docile. Da quella posizione poteva guardare le fronde frusciare al ritmo del vento, tra un raggio di sole e l’altro che entrava attraverso il reticolato verdognolo delle foglie e, prima di chiudere gli occhi, scorse il piccolo rondone svolazzare tra i rami allegro. «Rimanere in un luogo…» pensò mentre si godeva l’erba soffice sotto di lei, «… e prendersi il proprio del tempo nel viaggio: forse è questo che a volte manca a chi, come me, cammina in cerca di qualcosa e spesso passa oltre, disperdendosi fino a sbiadirsi nel rumore… penso che rimarrò qui un altro po’, fin quando starò bene». Il fruscio del vento scavava nell’aria tutt’intorno a lei solchi in cui risuonava a tratti per poi allontanarsi, fino a perdersi in lontananza nella campagna assolata al di sotto della collina. Mentre il sole scendeva leggermente annunciando l’ora pomeridiana si addormentò lì, distesa nel suo luogo, in attesa di riprendere il viaggio una volta ritrovata la compagnia del mondo circostante su cui ora era appoggiata.

  • Paolo Andrea Pasquetti, 3 Marzo 2022

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