Dino Campana e il tentativo di una poesia

La poesia che si respira nei Canti Orfici di Dino Campana è difficile, a tratti volutamente chiusa a chi tenti di avvicinarsi ad essa per comprenderla, provocandone l’allontanamento quasi intontito e con una punta di risentimento verso di lei. Provare a parlare di un’opera del genere, quindi, non è meno complicato perché – come per ogni scrittura abbastanza forte e gravida di pensiero da lasciare il segno – dà spazio a differenti e a volte opposte chiavi di lettura. Gradi di interpretazione che, inevitabilmente in ogni approccio critico, si differenziano a seconda dell’impronta di comprensione che ognuno di noi apporta all’opera sotto esame e da cui non è mai del tutto possibile separarsi: lo stampo in qualche modo della nostra specifica comprensione si imprime più o meno fortemente sull’impasto del testo che abbiamo di fronte, sui suoi concetti e sulle sue parole. Esercitarsi a imprimere meno forza possibile a un’opera è sicuramente utile, ma aprirebbe una discussione nella discussione che forse è meglio rimandare ad un ragionamento interamente dedicato al tema. Tornando a Campana, dunque, per conto di chi scrive la premessa è che di fronte a un testo dalle moltissime sfaccettature alcune sono quelle che, a mio avviso, risuonano più forti e inducono a una riflessione interessante.

Dicevamo all’inizio della complessità dei Canti Orfici, un testo che fa la spola tra prosa poetica e componimenti veri e propri, disegnando un cammino interiore e allo stesso tempo esteriore dell’io narrante che si snoda tra visioni allucinate e silenzi assordanti: dai cammini estatici nei passi di montagna alla dispersione tra i vicoli bui e popolati da demoni fin troppo umani di Firenze, Bologna e altre città narrate da Campana. La cosa che, forse, rimane più nella mente dopo aver letto interamente l’opera è la percezione di trovarsi di fronte a un tentativo rimasto in un certo grado incompiuto di dire una nuova poesia, una nuova musica da comunicare al mondo. Questo svilisce l’opera di Campana in sé? Tutt’altro, la rende ancor più interessante e carica di riflessioni proprio per il suo carattere di incompiutezza intrinseca. Incompiuto che traspare nonostante ci troviamo di fronte ad un’opera oggettivamente fatta e finita, che possiede un inizio ed una fine: eppure una volta sfogliata l’ultima pagina dei Canti resta in qualche modo quella sensazione di sottile irrealizzazione, di una misura non pienamente colma che fa durare l’inquietudine che traspare sin dalla prima riga. In che senso, dunque, l’opera di Campana può considerarsi incompiuta? Quali sono i significati legati a questa incompiutezza di fondo?

La poesia dei Canti Orfici è non finita, si potrebbe dire, tematicamente più che formalmente, data la struttura completa del libro che la raccoglie. Ce ne accorgiamo semplicemente per il fatto che Campana, come ogni poeta consapevole del suo ruolo nel mondo, a partire dalle prime pagine del suo lavoro esprime chiaramente come il suo sia un tentativo radicalmente profondo di andare verso una nuova poesia, di dire di più sul mondo ma accompagnato dalla consapevolezza di una sostanziale irraggiungibilità del tentativo stesso: «Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza?»[1]. In un certo senso l’io che si appresta a scovare la fonte della nuova poesia sente sin dal principio su di sé come quella ricerca sia destinata a mancare sempre di una parte. Più il poeta si affretta sulla via verso la meta, più rimane e si allunga quella – a volte – pur minima distanza da essa finendo tra le ombre di uno spazio eterno: solo la nostalgia resta come simulacro del tentativo ogni volta fallito e frustrato per ogni sua riproposizione nel tempo e nello spazio della scrittura e dell’esperienza della stessa. A questo riguardo, le parole che Arthur Rimbaud spende a proposito della ricerca che il poeta intraprende sembrano assai allineate a quella che Campana affronta di per sé nei suoi Canti: secondo il ragazzo di Charleville, il poeta «[…] giunge all’ignoto, e quando anche, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà comunque pur viste! Che crepi pure balzando attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori, e rincominceranno dagli orizzonti in cui l’altro s’è schiantato!»[2].

Sotto questo punto di vista, allora, la difficoltà e l’inadempienza del tentativo poetico di Campana sono dall’altra parte della medaglia la riprova del valore, della necessità della sua ardua via: se il poeta, come Rimbaud, ha il compito di aprire nuovi spazi con il suo dire, di mostrare cose fino ad allora rimaste sotto lo specchio opaco della vista quotidiana degli uomini il suo fallimento, l’interruzione brusca del suo sentiero diventa allo stesso tempo l’impronta che altri dopo di lui seguiranno, disvelando man mano quanto scorto da chi è venuto prima, proprio come il poeta di Marradi. Il suo “schianto” lascerà così aperta la via ad altri: «Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attonito la grazia simbolica e avventurosa di quella scena»[3].

In questo schianto o ponte teso e poi ritirato verso l’infinito la poesia che ne deriva cerca di trovare una sua forma nuova. Così leggendo i Canti l’impressione è che, laddove i componimenti in versi veri e propri stentino di più, tanto nella comunicazione delle visioni del loro autore quanto nella figura che tentano di assumere – sintomo, questo, di una nascita poetica in corso in qualche modo ancora di là da venire – siano proprio le parti in prosa quelle a spiccare maggiormente. È infatti nella prosa poetica dei Canti che il tentativo di Campana trova forme e parole avvolgenti, a volte brevi illuminazioni che riempiono il senso della ricerca tra un cratere e l’altro lasciato nell’ombra del percorso. Lo si capisce dall’importanza assoluta che sembra ricoprire, nella prosa, la dimensione sonora: musicalità della sintassi, ripetizioni, assonanze etc. in un’orchestra linguistica che trascina il lettore nel viaggio abissale dell’io che lo percorre e lo canta. Sequenze di immagini e suoni si delineano vorticosamente: «Sulle spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un balzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle selvagge nell’ombra»[4].

A che scopo questo vortice in cui l’io di Campana si getta rischiando uno schianto polveroso? Lo si è visto prima con Rimbaud e ne abbiamo parlato, in parte, con Barfield ed Heidegger a proposito del ruolo della poesia qualche articolo fa (https://radurapoetica.com/2021/11/16/la-poesia-disvela-le-cose-alludendo/): il poeta disvela le cose, le riporta a chi ancora non può vederle, rischiando il sacrificio della propria parola per inseguire una melodia cui accordarsi lentamente: «Io fisso tra le lance immobili degli abeti credendo a tratti vagare una nuova melodia selvaggia e pure triste […]»[5].

La poesia aspra e oscura di Campana nei suoi Canti Orfici ci spinge così a chiederci cosa essa lasci per noi oggi, a ormai quasi un secolo di distanza dalla sua scrittura. Sono proprio le dolcezze improvvise e repentine che si nascondono tra le sue righe a dirci come la ricerca debba in qualche modo procedere, palmo dopo palmo, trovando e poi accettando subito dopo di perdere un momento di unità e comprensione per poi ritrovarlo ogni volta che l’ombra sia passata alle nostre spalle. Il tentativo, anche quando si infrange nel buio, non va mai perduto ma lascia spiragli che mano a mano arricchiscono chi li segue e li trattiene dentro di sé: «E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito»[6].

  • Paolo Andrea Pasquetti, 21 Dicembre 2021

[1] Dino Campana, Canti Orfici e altre poesie, Garzanti s.r.l., Milano, 2002, p. 18.

[2] Arthur Rimbaud, Il poeta è un ladro di fuoco. Le lettere del veggente, L’orma editore srl, Roma, 2013, p. 41.

[3] Dino Campana, Canti Orfici, p. 12.

[4] Ivi, p. 15.

[5] Ivi, p. 14.

[6] Ivi, p. 73.

Rispondi